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I duri del "partito del lavoro" sempre in lotta contro il progresso

Operai in piazza

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In un certo senso, quanto accade oggi tra Fiom e Cgil ricorda lo spirito del '93. No, non l'accordo sulla concertazione che ha segnato, nel bene e nel male spesso più nel male che nel bene, le relazioni industriali del Paese prima della scossa imposta da Sergio Marchionne. Semmai, vale la pena di rifarsi ad una vicenda "minore", ma più significativa di quella stagione sindacale. Fu nel settembre del '93 che Susanna Camusso, 38 anni all'epoca, venne chiamata da Fausto Vigevani alla segreteria nazionale della Fiom con la delega sull'auto. L'obiettivo, allora come oggi, è di rimettere ordine ai vertici della federazione dei meccanici, in cui sta per riemergere il partito dei "duri", dopo la parziale eclissi seguita alla sconfitta del 1980 in Fiat. Ma le cose non vanno per il verso giusto. Al termine di una sorta di processo condotto con metodi stalinisti, come accusa la stessa Camusso, il neo segretario Claudio Sabatini giubila la funzionaria che arriva da Milano, emarginandola dal nascente "partito del lavoro", cioè la nuova Fiom che comincia allora a trasformarsi da semplice organizzazione sindacale a nucleo forte del dissenso sociale, dentro e fuori la fabbrica. Vale la pena soffermarsi su un episodio di archeologia sindacale (allora la Camusso venne accusata di aver siglato con l'odiata Fiat un accordo sul notturno "troppo penalizzante per le donne") per mettere in chiaro che il dissidio tra Cgil e Fiom viene da lontano. E va assai al di là dell'effetto Marchionne. Il numero uno di Fiat ha avuto senz'altro il pregio, contro le ambiguità farisaiche della Confindustria e di Federmeccanica, di prendere il toro per le corna. Ovvero di non farsi prendere in giro né dai duri della Fiom né dai rituali sindacali del nostro Paese. Ma il suo obiettivo era, e resta, di produrre automobili in Italia ad un costo e con una qualità competitiva con gli altri impianti del gruppo in giro per il mondo. Tutto qui. È fuori di luogo, anzi un po' patetico, evocare sinistri piani del capitale, come fa Maurizio Landini sostenendo che l'ad di Fiat «vuol far ricadere la responsabilità dei mancati investimenti sui lavoratori» per qualche fine recondito e reazionario. Non convince di più l'invocazione a «conoscere i dettagli dei piani industriali Fiat per capire le vere prospettive occupazionali di Fabbrica Italia» come invoca Stefano Pessina, responsabile economico del Pd. Queste richieste avevano un senso quando a pagare il conto era lo Stato, cioè i contribuenti. Oggi, al contrario, Fiat i soldi li chiede alle banche in giro per il mondo. E deve offrire garanzie. Altrimenti, come ha detto Marchionne, a raccogliere i soldi «ci vadano i sindacati». Chissà: una delegazione Cremaschi-Cofferati-Landini in visita da Goldman Sachs potrebbe essere un'idea un po' meno frusta e banale per il prossimo cine-panettone. Nel frattempo, però, vediamo le cose come stanno al di là delle solite alchimie: il vero conflitto, che arriva da lontano, si consuma all'interno del sindacato storico del lavoro. Sono in rotta di collisione due tradizioni: da una parte chi ritiene che, dopo una trattativa anche aspra, un sindacato che si rispetti un accordo lo deve pur fare, tenendo conto degli interessi dei lavoratori. E non occorre certo un televoto od un referendum per capire che la preoccupazione numero uno dei lavoratori sia oggi l'occupazione che si può generare solo attraverso gli investimenti privati. Anche perché lo Stato di quattrini non ne ha. Dall'altra, invece, c'è la logica della lotta per la lotta. In vista di una diversa organizzazione del lavoro, della società o di chissà che altro. C'è la strategia delle battaglie di bandiera che si fa scudo dei cosiddetti "diritti indisponibili dei lavoratori". Due impostazioni diverse, da cui discendono strategie diverse. Le "colombe", propongono la "firma tecnica" a Mirafiori, per non correre in rischio di essere estromessi dall'attività di fabbrica. I "falchi" già sognano l'inverno di lotta, condito da ricorsi più o meno fondati alla magistratura (un giudice "compagno", prima o poi, lo si trova) e da chissà quali forme di lotta. In Fiat, ma non solo, visto che, ancor prima della vertenza Mirafiori, tra Cgil e Fiom c'era stato lo strappo sulla questione del salario legato alla produttività, cioè il nodo chiave della possibile ripresa dell'economia italiana. Di questo si sta parlando: più investimenti, più lavoro, più salari. Anche se di questo, nelle prossime telenovela tv dedicate al "cattivo" Marchionne, statene certi, si parlerà ben poco.

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