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Il ricco "compagno" Profumo

Alessandro Profumo

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Pensiamo di non avere mai ascoltato un così imponente e quasi acritico coro di encomi quale quello riservato ad Alessandro Profumo, dopo un dimissionamento certo controverso ma deciso dagli azionisti in base ai loro diritti ed accompagnato da una buonuscita altrettanto imponente: 40 milioni di euro, due dei quali in beneficienza. Negli Usa quando banchieri e top manager hanno ottenuto simili liquidazioni la stampa e l'opinione pubblica sono insorte; da noi viene vista come una medaglia al valore. Nessuno discute le straordinarie capacità dell'ex ad dell'Unicredit, che in 15 anni ha portato il gruppo al primo posto in Italia e tra i primi in Europa: ma perché non entrare anche nel merito della vicenda? Abbiamo il forte sospetto che se al posto di Profumo - che votò alle primarie dell'Unione (per Romano Prodi) ed a quelle del Pd (per la propria consorte Sabina Ratti, candidata nella lista di Rosy Bindi), accompagnando questi gesti con altrettante esternazioni - ci fosse stato qualche democristiano d'antan adesso assisteremmo al trionfo per il «tramonto dei boiardi», come avvenne per l'intera classe dirigente di aziende a banche pubbliche nei primi anni Novanta. Nel concerto spiccano le ricostruzioni di Repubblica, in puro stile santoriano. Due giorni fa il quotidiano di Ezio Mauro ha celebrato il banchiere «scomodo, fuori dal sistema» (e le primarie?), investendolo solennemente del ruolo di nuovo salvatore della patria di sinistra: «Non si può escludere, vista la giovane età e l'impegno civile del personaggio, una discesa nell'agone politico in questo momento di grande confusione morale e istituzionale per l'Italia repubblicana». Ora identifica in lui il «papa straniero del Pd», con preavviso di sondaggio. Dopo Montezemolo e George Soros, ecco dunque un altro candidato ad interpretare al meglio le esigenze di precari e disoccupati: speriamo solo che Profumo non sia superstizioso. Ieri però Repubblica si è superata offrendo una docu-fiction dal titolo «La vittoria dell'asse Berlusconi-Geronzi». Ricostruzione che definire accidentata è dir poco, nella quale tutte le contraddizioni vengono tranquillamente liquidate come «apparenti». Cesare Geronzi, per esempio, si sarebbe liberato di un ingombro per la fusione tra Generali e Mediobanca: peccato che Profumo sia stato tra i principali king maker dell'elezione del banchiere romano a presidente del gruppo del Leone. Anche la scalata libica all'Unicredit, sulla quale è caduto Profumo non avendone informato né gli azionisti, né il proprio presidente, né la Consob, né la Banca d'Italia, sarebbe stata null'altro che una diabolica mossa del Caimano. Repubblica scrive tranquillamente che Profumo «prima della partenza per le ferie era andato in missione ad Arcore per spiegare il senso dell'ingresso dei libici». E qui nella docu-fiction c'è già qualcosa che stride: il giorno prima la difesa repubblicana di Profumo aveva fatto perno sul fatto che il banchiere avesse scrupolosamente applicato «l'articolo 134 della legge Draghi che prevede risvolti anche penali per chi riveli all'esterno informazioni privilegiate». In altri termini: non lo dice al presidente dell'Unicredit né al governatore della Banca d'Italia, però - stando a Repubblica - lo va a raccontare ad Arcore, a Berlusconi. Il quale, in perfetto stile Michael Douglas-Gordon Gekko, gli risponde: «Procedi pure». Dopodiché, sempre nei panni del protagonista di Wall Street, organizza un «piano in tre mosse» manovrando tanto le fondazioni di Unicredit quanto la Consob e Bankitalia, tanto la Suddeutsche Zeitung quanto il cda di Unicredit. Tutta gente che notoriamente aspetta solo l'imbeccata di Berlusconi. Se anche fosse minimamente verosimile, non si capisce come il Cavaliere si arrabatti a far quadrare i conti tra l'Mpa di Lombardo ed i liberaldemocratici di Tononi. Ma i teoremi di Repubblica hanno questo di bello: smentendo la loro stessa natura, non necessitano di dimostrazione. Veniamo all'altro punto che in queste celebrazioni fa un po' acqua. Caratteristica e vanto di Profumo era di applicare alla lettera la filosofia McKinsey: banchiere non «di sistema» ma «generatore di valore». Distante cioè dalle pressioni degli azionisti e della politica: un manager duro e puro. Duro sicuramente, ed anche bravo. Ma puro? Le due sue operazioni più controverse smentiscono questo assunto. La prima viene ricordata da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera, in un taglio basso a pagina 5. Si tratta di quando Profumo, con l'appoggio allora della Banca d'Italia di Antonio Fazio, cacciò Vincenzo Maranghi da Mediobanca. Il quale Maranghi, nota Mucchetti, se ne andò senza maxiliquidazione, «accettando solo le contenute spettanze di legge». Allora Profumo non guardò molto per il sottile, comportandosi da padrone. Chi seguì la vicenda ricorda come il ministro del Tesoro di allora, che si chiamava Giulio Tremonti, tentò una battaglia inutile contro quella che giudicava una pura operazione di potere. Poi cadde Tremonti, e cadde anche Fazio. Ma neppure una sbavatura sul pedigree di Profumo. La seconda operazione è, appunto, quella libica. Se è vero che il top manager si sentiva sotto tiro da parte dell'asse padano-bavarese, perché acconsentire in silenzio all'ascesa di fondi e banche di Gheddafi? Solo per rafforzare il capitale, ed Il Tempo è stato tra i primi a scrivere quanto gli accordi con la Libia siano strategici? O, come si dice ora da sinistra, per trovarsi una sponda che bilanciasse le fondazioni e gli azionisti tedeschi? E in questo caso come si concilierebbe tutto ciò con lo stile McKinsey? Terzo punto: il ruolo della Banca d'Italia. Ha chiesto informazioni come impone la legge. Ma quando ha visto che non ne arrivavano, in che modo gli uffici di Mario Draghi hanno valutato il fatto che tra fondi, banche e perfino banca centrale di Tripoli si fosse abbondantemente superato il tetto del 5 per cento previsto dagli statuti? Forse in via Nazionale c'è chi crede che da quelle parti ci si muova in piena concorrenza? Ancora: Bankitalia ha prodotto fior di disposizioni sulla governance delle nostre banche. Quando ha notato che al vertice del primo istituto presidente e amministratore delegato si parlavano solo attraverso dichiarazioni al curaro, non ha pensato di convocarli entrambi? Siamo al paradosso: il ministro dell'Economia ha tentato di salvare Profumo esercitando una moral suasion che forse non gli compete (a proposito dei teoremi di Repubblica). Bankitalia, sia detto con rispetto, ha aspettato la frittata.

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