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L'etica delle infrastrutture è quello che le fa rendere

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Da vent'anni l'Italia balbetta sulle infrastrutture. Se ne parla ovunque; si investono cifre da capogiro. Ma il sistema infrastrutturale rimane lo stesso di venti anni fa per servire un'economia cresciuta in modo esponenziale e una popolazione sempre più numerosa, mobile, esigente. Non farà piacere sapere che abbiamo una dotazione infrastrutturale che è mediamente poco più della metà di quella che hanno paesi europei nostri produttori e concorrenti. Parliamo di infrastrutture fisiche (ferrovie, aeroporti, porti etc.). Non farà piacere riconoscere che spendiamo più della Francia per nuove infrastrutture, che non piacciono. Se proviamo a confrontare l'efficienza e il risultato economico della gestione delle infrastrutture il risultato è ancora più deludente (tranne che per le autostrade, sulle quali abbiamo una posizione straordinaria in Europa per la redditività del sistema). Il problema di fondo è di tipo culturale: l'infrastruttura è vista come investimento per chi la realizza. Poco contano i gestori; poco contano anche i soli destinatari dell'infrastruttura: i cittadini. A questi «interessi» nazionali, si sommano facilmente gli «interessi» internazionali, che vogliono che le cose non avvengano per non disturbare i loro «interessi» (Nord Europa in primo luogo). Bisogna partire da questa considerazione prima di parlare di infrastrutture. Cosa c'è da fare. Le infrastrutture sono la base dello sviluppo e la garanzia della sua continuità . Debbono avere talune caratteristiche elementari: a) Sapere chiaramente a cosa servono e quale è lo scopo cui sono destinate; ciò significa che debbono avere una loro elementare etica. Progetto, costo, tempi, gestione. b) Essere inserite in una rete di altre infrastrutture e dialogare con queste (una autostrada che va sino ad un porto, un FS che va sino a un aeroporto, un'intermodalità chiara e definita, una possibilità di scelta per l'utente/cliente). c) La capacità di adattamento. L'infrastruttura, essendo per sua natura un investimento di lunghissima durata, deve essere concepita sin dall'inizio in modo flessibile, e non riprogettata ogni dieci anni quando «non ce la fa più». Un piano infrastrutturale è estremamente complesso. È meglio affrontare il problema per settori, alla luce di un obiettivo generale. È errato sia sotto il profilo concettuale, che sotto quello finanziario e tecnico/ realizzativo, dire che in Italia si sta facendo «un piano per le infrastrutture». Se si tiene conto che ogni lira investita direttamente in infrastrutture ne mette in moto automaticamente almeno tre di costo totale, di investimento, e di ricchezza, si comprende che un simile piano su tutto il Paese e per tutti i problemi infrastrutturali di 150 miliardi di euro rischia di essere un piano ingestibile in un periodo di tempo economicamente apprezzabile (e quindi politicamente visibile). Occorre un piano di priorità (questo si può chiamare piano perché è una scelta tra varie opzioni, rinunciando ad alcune e privilegiandone altre). La scelta è determinata dal mercato e dagli obiettivi che il sistema Italia si propone. Ci piaccia o no noi oggi siamo dominati dal sistema infrastrutturale Nord Europeo (e competiamo forse un po' con Malta). Lorenzo Necci

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