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La luna nuova di Gianni Togni: "Guardo il futuro da un oblò"

Gianni Togni con Massimo Ranieri

Un disco tutto in analogico e un grande concerto per i 40 anni della hit

Davide Di Santo
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Per un hitmaker come Gianni Togni deve essere strano lavorare per tre anni su un disco, registrarlo completamente in analogico e iniziare finalmente a promuoverlo con la certezza che la quasi totalità delle grandi radio non ne trasmetterà un solo brano, neanche il singolo «Via con me», apripista di «Futuro improvviso» da qualche giorno in vendita in vinile, cd e digitale. «È scontato ma la cosa non mi impressiona. Le radio oggi sono aziende e giustamente pensano al profitto. Siamo tutti vittime o schiavi di un algoritmo: passano solo certe canzoni, sempre le stesse, fatte per piacere a un certo tipo di pubblico e selezionate in base a criteri di marketing che non hanno niente a che fare con l'arte. Ma io non sono l'unica vittima di questo sistema. Quanti brani di Paul McCartney o di Francesco De Gregori si sentono oggi in radio?». Verrebbe da dire: ma chi glielo fa fare? «Io amo fare dischi e ho il mio pubblico, una comunità di persone che mi segue e cambia nel tempo. Il 21 marzo presenterò Futuro Improvviso con un concerto all'Auditorium Parco della Musica di Roma, anche per celebrare i quarant'anni di ”Luna”. Pensi che prima di pubblicizzare l'evento buona parte dei posti in platea era già venduta». Che rapporto ha con la sua città? «Più passa il tempo e più faccio fatica a staccarmi da Roma anche per brevi periodi. Nel nuovo album c'è una canzone, Note a margine, in cui la città è vista dagli occhi di un guidatore di risciò un po' poeta, ma nella mia discografia ce ne sono tante. Io abito nel centro storico dal 1984, quando le case non le voleva nessuno. Oggi, per dire, non potrei permettermi di acquistare un immobile qui. Prima c'erano botteghe, artigiani, restauratori… oggi sono tutti ristoranti per turisti. Dopo la grandeur nella prima era Rutelli è stato un declino inarrestabile. La cosa più grave è che non c'è più offerta culturale, il degrado è una conseguenza. Roma oggi è una bella donna con le calze rotte e i vestiti un po' strappati ma è impossibile starle lontano a lungo. Sono stato due anni a Stoccolma (per il musical su Greta Garbo ndr) e tutti i venerdì volavo a Roma per tornare in Svezia il lunedì all'alba….». «Guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po'» (Luna) è un verso che è entrato nel linguaggio comune. Perché? «È una frase che apre spazi. Vuole dire che bisogna sempre guardare le cose dalla giusta distanza. Il disco che contiene Luna è stato realizzato a Milano, e in quei giorni io e Guido Morra incontravamo sempre questo personaggio, una specie di barbone ma piuttosto ”elevato” che parlava alle donne, spesso riferendosi a una certa Anna. È lui che passa ”le notti a camminare dentro un metrò”. Il finestrino è diventato un oblò perché sono sempre a caccia di parole tronche, visto che compongo le mie canzoni in finto inglese e i testi li scrivo in un secondo momento. I barboni sono in mezzo a noi eppure ci guardano con distanza, e non capiscono perché corriamo dietro a cose che per chi ha valori diversi non hanno senso». Il 21 marzo a Roma tornerà a suonare dal vivo dopo 14 anni. Perché questa lunga pausa? «Per molti anni mi sono dedicato al musical (Hollywood con Massimo Ranieri, Poveri ma belli… ndr) ma la verità è che a un certo punto iniziano a chiamarti per le feste di piazza. E io non ho mai voluto rubare il lavoro a chi, con la piazza, ci campa non avendo avuto dei successi discografici». Perché non partecipa a questo eterno revival degli anni '80 in tv? «Mi chiamano spesso ma rifiuto. Vogliono farmi cantare solo le vecchie canzoni ma non ho intenzione di fargli pubblicità con Luna, Giulia, Semplice o Per noi innamorati che nel mondo continuano a vendere e a essere riprodotte. Perdo dei soldi? Non mi importa. Faccio una vita semplice, ho sempre la stessa macchina e mi piace fare dischi». Definisce il suo nuovo disco pop indipendente. Cos'è il pop oggi? «Il pop è bello perché può prendere spunti e ispirazioni da molti generi, dal rap dall'hard rock al jazz. Ci sono artisti, come Bon Iver, per esempio, che nascono folk e arrivano a fare grandi dischi pop. Una cosa impensabile oggi in Italia. Il problema è che quando funziona una ritmica questa diventa la regola. Ora va il reggae, ed escono tutti pezzi uguali. Ma l'omologazione è la negazione del pop che è contaminazione». Di italiano non le piace proprio niente? «Mah… Niccolò Fabi è un artista di grande talento. Più recenti? Non mi vengono in mente. In realtà ho anche provato a coinvolgere qualche giovane autore. Grande entusiasmo all'inizio, ma poi ha gettato la spugna». Lei è stato a Sanremo solo come autore di «Ti parlerò d'amore» (1997) cantata da Massimo Ranieri. Perché? «Non mi piace l'idea della gara, e mettere in competizione artisti e stili diversi mi sembra una cosa impossibile. Senza parlare delle regole a partire dai limiti di tempo. Negli anni '80 hanno fatto di tutto per mandarmici. Una volta sembrava fatta ma alla fine arrivò il no di Pippo Baudo. Ancora lo ringrazio».

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