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La ricetta di Scaparro "Sono Pasolini e Belli gli anticorpi di Roma"

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Il regista parla della città e del suo spettacolo all'Argentina

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Dopo il debutto in prima nazionale al Piccolo Teatro di Milano in occasione dell'inaugurazione di Expo 2015, lo spettacolo goldoniano «La bottega del caffè» di Maurizio Scaparro approda al Teatro Argentina dal 10 al 15 novembre con un'ottima risposta al botteghino anche se con corta tenitura perché era previsto per il Teatro Valle, non ancora riconsegnato allo stabile capitolino. Il regista è tornato ad affrontare l'autore veneziano dopo «Una delle ultime sere di Carnovale», prodotto dal Teatro di Roma nel 1989 durante la sua direzione artistica, e in seguito a «Il teatro comico» del 1994 e «Mémoires» del 2005. La scelta di Goldoni si lega alla difficoltà di vivere il rapporto con l'Europa, nel desiderio di rendere omaggio a città come Venezia, Parigi, Napoli, senza tuttavia dimenticare la Capitale gravemente sofferente in questi giorni, ma sempre pulsante nel cuore di Scaparro, che ricorda con orgoglio di essere nato in Piazza Belli.     Il caffè come stimolo all'incontro, ma soprattutto come osservatorio privilegiato di un microcosmo, muove l'azione di una commedia che in realtà affonda nei comportamenti umani? «È uno dei motivi per cui l'ho scelta. È una commedia in forma di tragedia. Goldoni sa benissimo che Venezia inizia il suo inesorabile declino e sembra prendere le distanze, prima dei suoi addii storici che precedono il soggiorno parigino, dalla visione magica di una delle più belle città del mondo, per descrivere una realtà deformata, già dimentica della sua grandezza, fra bische, botteghe e bordelli. Quando ho diretto il Carnevale del Teatro a Venezia ho proprio percepito come fosse ormai ridotta all'insegna di una locanda».     Chi è Don Marzio? «L'interrogativo sulla sua vera identità è stata una spinta decisiva a rappresentare questo lavoro. Non casualmente osserva le vicende descritte attraverso un occhialetto, diabolica lente, con cui spia curiosamente i fatti, le ipocrisie, le stravaganze delle persone. È troppo acuto per non essere l'autore e ha il suo piglio. In realtà cela Goldoni anche se afferma di essere napoletano, ma in quel dialetto pronuncia un'unica battuta. L'attore Pino Micol, con cui sono stato felice di tornare a collaborare, mi ha aiutato a conservare entrambi gli aspetti del protagonista».     Dove si rintraccia soprattutto l'attualità del testo? «Don Marzio, o Goldoni che sia, non dimentica di parlare del mondo che sta cambiando fuori da Venezia: dall'orologio che viene da Londra, alle notizie che filtrano dalle gazzette europee, fino al rimpianto per una Napoli mai conosciuta. Questa visione goldoniana mi ha fatto pensare alla nostra cara vecchia Europa che oggi viviamo con qualche fatica».     Lei comunque si occupa delle attività internazionali della Fondazione Teatro della Toscana, che ha riunito il Teatro della Pergola e il Centro di Pontedera, mantenendo fiducia nella cultura europea? «Certamente. Intendo creare una situazione artistica che permetta di comprendere meglio il periodo che stiamo attraversando: vorrei che si realizzasse un vero incontro di linguaggi fra vita e spettacolo. Nel gemellaggio con Parigi ho ambientato nella palestra del liceo italiano un palcoscenico per piccoli eventi teatrali e sto facendo nascere al Teatro della Pergola di Firenze una videoteatroteca nazionale, già cominciata con i materiali goldoniani».     Lei è nato a Roma e ha qui una casa. Come valuta la condizione della città? «Credo che l'ultimo periodo di vita per la Capitale sia stato quello degli anni Ottanta, non solo per Rutelli e Veltroni, ma soprattutto per Nicolini, con cui avevamo creato un ponte di amicizia fra estate romana e carnevale veneziano nell'incontro fra teatro e piazza. Il suo lavoro è stato troppo ingiustamente dimenticato. Mi intervistano sulla mancanza di anticorpi della città. L'idea che debba arrivare un prefetto da Milano mi fa venire un brivido lungo la schiena. Gli anticorpi di Roma sono nella sua cultura. Belli, nella cui piazza sono nato, è uno, Pasolini, celebrato in questi giorni, è un altro. E poi ci siamo noi e i tanti giovani creativi che annaspano per farsi avanti».

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