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Il sesso progressista dei Borbone

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Il Regno delle Due Sicilie più liberale del codice sabaudo A Torino gli atti omosessuali erano puniti per legge

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Naturalmenteho evitato di fargli osservare che si tratta di un uso di cui le storie più serie dei Borbone di Napoli hanno dimostrato da un pezzo la rozzezza. Ma non sono riuscito ad astenermi dal fargli osservare che sulla questione omosessuale i Borbone erano assai più moderni dei Savoia. «Questo mi giunge nuovo» ha allora detto lui, rivolgendomi un sorriso di sardonico interesse. Ragion per cui ho creduto opportuno rivelargli che le leggi sull'omosessualità vigenti nel Regno delle Due Sicilie erano le più illuminate dell'Italia pre-unitaria. Erano così illuminate che nel codice penale di quel Regno di omosessuali e omosessualità non si faceva nemmeno parola. Dei reati sessuali (stupro, sevizie, ratto, violenza su minori, oltraggio al pudore e simili) quel codice infatti si occupava prescindendo del tutto dal sesso dei soggetti. Si presupponeva, quindi, che l'appartenenza del colpevole di un reato sessuale allo stesso sesso della sua vittima fosse, dal punto di vista penale, un particolare del tutto irrilevante. In quel regno reazionario e bacchettone i rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso non erano insomma proibiti. E poiché tutto ciò che non è espressamente proibito è implicitamente permesso, ne consegue che quei rapporti erano considerati assolutamente normali e leciti. Tutt'altra aria tirava in Piemonte e in Sardegna. Nel codice penale dell'illuminato Regno di Sardegna l'omosessualità era considerata un crimine in quanto tale. Un suo articolo – il 425 – puniva gli atti omosessuali su querela di parte o in caso di pubblico scandalo. È perciò legittimo supporre che quando nacque l'Italia Una, e con essa l'esigenza di imporre il codice sabaudo in tutto il territorio nazionale, tutti gli omosessuali, noti o velati, del nostro Mezzogiorno dovettero temere che per loro il Risorgimento fosse stato una fregatura. Quel timore però durò poco. Giacché il trapianto di quell'articolo riuscì dappertutto fuorché nell'ex Regno delle due Sicilie. Al momento di promulgarvi il «nuovo» codice esso fu infatti abrogato. Evidentemente sembrò incompatibile coi costumi delle popolazioni meridionali, avvezze da secoli a considerare l'omoerotia un elemento quasi naturale della vita quotidiana. E così si giunse a questo paradosso: la pratica omosessuale fra adulti consenzienti era un crimine a Torino ma non a Napoli, a Milano ma non a Bari, a Bologna ma non a Cosenza, a Cagliari ma non a Palermo. Insomma soltanto nel nostro arretratissimo Sud, comprese le sue campagne, presumibilmente care, come ai tempi Virgilio, ai Coridoni e agli Alexi, potevano coltivare i loro gusti erotici senza nessun timore di denunce, condanne e arresti. In tutte le altre regioni del neonato regno sabaudo dovettero invece, per molti anni ancora, continuare a cercare di non incappare nei rigori della nuova legge. Questo doppio regime durò fino alla promulgazione, nel 1889, del codice Zanardelli. In cui l'omosessualità, non essendovi, come in quello borbonico, nemmeno nominata, viene implicitamente considerata, se praticata in privato fra adulti consenzienti, del tutto lecita. Dunque per circa trent'anni, sulla questione omosessuale, l'Italia appena unita (ecco un dettaglio quasi del tutto ignorato della sua primissima storia) restò divisa in due. Il che ovviamente conferma che in rebus sexualibus il nostro retrogrado Sud è sempre stato molto più aperto del nostro avanzatissimo Nord. Ma soprattutto dimostra che la passione omofobica, se risultò subito incompatibile con la corrotta visione borbonica della vita, poté invece accordarsi a lungo col virtuoso e maschio patriottismo risorgimentale. Dev'essere anche per questo che nessun magistrato borbonico poté mai emettere sentenze inique come quella con cui, nell'Inghilterra vittoriana, venne condannato Oscar Wilde, o quella con cui, nel 1969, nell'Italia democratica e progressista nata dal Risorgimento e dalla Resistenza, un giudice socialista (Orlando Falco), brandendo il reato di plagio, condannò a nove anni di carcere un omosessuale (Aldo Braibanti) colpevole di convivere con un amante (Giovanni Sanfratello) maggiorenne e consenziente.

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