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Rondi: «Quell'uomo riservato dietro una maschera universale»

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Ricordi Oltre al critico nel filmato dei fratelli Verdone intervistati anche De Sica, i Vanzina, Baudo, Cardinale e Valeri

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macaroni!Questa è robba da carettieri. Io nu' mangio macaroni, io so' americano... Macaroni ... m'hai provocato e io te distruggo! Io me te magno! Ahm.. Questo o damo ar gatto! Questo ar sorcio, co questo ce ammazzamo e cimici...». Persino i bambini, nati dopo la scomparsa di Sordi, ricordano questa battuta memorabile detta dall'Albertone nazionale in «Un americano a Roma» di Steno. Sordi ha dato vita ad una galleria di ritratti quasi tutti negativi, con l'intento di tratteggiare i difetti più tipici ed evidenti degli italiani, a volte sottolineati con fare benevolo altre volte invece sviluppati attraverso una satira feroce. Non era un attore facilmente avvicinabile, ma coloro che lo hanno conosciuto ne parlano sempre con affetto e alcuni, come Gian Luigi Rondi, lo ricorderanno nel film di Carlo e Luca Verdone, «Alberto il grande». Rondi, chi era davvero Sordi e quali erano le caratteristiche della sua personalità? «Io e Sordi siamo stati molto molto amici. Lo seguii insieme con Vittorio De Sica e Zavattini nel film "Mamma mia che impressione". Prima di conoscerlo lo avevo sentito alla radio. Ma comunque andai a vederlo e scoprii un personaggio nuovo della cinematografia italiana, che ha poi invaso la nostra scena con tutti i registi che facevano a gara per averlo. Era piuttosto furbo, nel senso benevolo. Ricordo che al ritorno dal suo viaggio in America, dove era andato per presentare il film "Un americano a Roma" prendemmo un caffè in piazza del Gesù e lui mi raccontò: "Sai, in America i film con Marlon Brando li imitano tutti. Invece, io sono riuscito a mettere in evidenza i difetti degli italiani, tanto che la gente si vergogna ad imitarli". E aveva ragione. Basterebbe solo citare "Il vigile" o "Il vedovo"». Una volta Sordi disse che senza sostituirsi ai manuali didattici, voleva dare un contributo alla conoscenza della storia italiana, visto che in 200 film, con i suoi personaggi, ha raccontato il costume del nostro Novecento: pensa che abbia esaudito il suo desiderio? «Credo di sì. Abbiamo lavorato insieme alla "Storia di un italiano" che andò in onda sulla Rai. Ricordo che andai a trovarlo nella sua grande villa romana. E mi disse di lasciargli fare il preambolo in tv e così accadde. Quando iniziò la puntata disse ai telespettatori: "Qui vedrete i peggiori difetti degli italiani di cui in molti devono vergognarsi, ma non io e Rondi, né voi che ci state guardando, perché io qui racconto i difetti dei vostri vicini di casa". Fu una battuta storica: così, riuscì ad ingraziarsi la simpatia del pubblico». Qual era il rapporto di Sordi con le donne? «Diceva sempre che potarsi a casa una moglie era come avere accanto un'estranea. La sua famiglia era composta dalle sue sorelle e dal fratello: era un uomo molto cattolico e non avrebbe accettato il divorzio nella sua vita, così preferiva stare da solo. Era un uomo molto serio e non ho mai sentito pettegolezzi sulle sue avventure erotiche o sentimentali. Da giovane era protetto da Andreina Pagnani che lo lanciò nella radio. Lei forse si era invaghito di lui, che era il più giovane attore della compagnia». Quali furono i film che lo consacrarono alla gloria? «La trilogia composta da "La grande guerra" di Monicelli, da "Il vedovo" di Dino Risi e da "Un americano a Roma" di Steno. E poi, certo, "Lo sceicco bianco" di Fellini e tanti altri che gli fecero vincere il Leone d'oro alla carriera alla Mostra di Venezia. Uno dei suoi ultimi film, "Nestore, l'ultima corsa" mi intristì molto: ricordo che lo avevo visto in una saletta di Cinecittà e lui mi vide triste e me ne chiese il motivo. Io risposi che mi immalinconiva vedere un pensionato che lottava per il suo posto di lavoro. E pensare che all'epoca non si parlava ancora di rottamati». Perché Sordi non è mai riuscito ad uscire, tranne qualche rarissimo film, fuori dai confini nazionali? «Non ha mai superato le Alpi perché era radicato nella lingua italiana e nel dialetto romanesco. Era un'autentica maschera universale». Che ricordo ha della sua villa romana? «Difficile da raggiungere, rispetto a quella di Manfredi, di Nazzari e di altri. Era ricca di pezzi d'antiquariato e aveva una collezione di caffettiere d'argento antico: quando le ammirai, lui troncò subito il discorso, dicendo "e tu, allora che collezioni acquasantiere?". Appena suonai il campanello mi aprì un domestico che mi fece parcheggiare l'auto e poi mi fece accomodare nello studio, mentre lui scendeva dai piani superiori. So che aveva la sala di proiezione, ma non l'ho mai vista. Ricordo, invece, la sua collezione di quadri, una vera pinacoteca che fotografava e mandava ritratta insieme con i biglietti d'auguri natalizi». Era avaro, come si dice? «No, anzi. Dava molti soldi in beneficenza, soprattutto per le missioni, manteneva bambini a distanza e aiutava le Dame di S. Vincenzo. Ma non spendeva e si vedeva pochissimo in giro». Il suo vizio più grande? «Non ne aveva. Nonostante la sua esuberanza, era però molto riservato». Il suo pregio maggiore? «La sua capacità di metamorfosi in uno, nessuno e centomila: era un grandissimo attore, lo ricordo più sullo schermo che nella vita pur avendolo frequentato abbastanza». Din. Dis.

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