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di Lidia Lombardi Il legame di ideali che diventa di affetti, di condivisione morale e civile.

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Mac'è un aggettivo che ciascuno di loro gli attribuisce. Gianfranceschi è stato la personificazione della coerenza e della lealtà. Gianfranco De Turris - giornalista, scrittore, studioso di Tolkien - è il più vicino, come generazione. «Con Gianfranceschi, lui degli anni Venti, io degli anni Quaranta, condividevamo questo interrogativo. Chi verrà dopo di noi? Intendendo chi avrebbe potuto continuare, e con quali spazi, il nostro discorso ideale. Fausto è stato una delle persone più oneste, più limpide che io abbia conosciuto. Coerente anche nei momenti personali più difficili. Dirigere negli anni Sessanta la Terza Pagina de Il Tempo, una delle poche orientate a destra tra i quotidiani italiani, era stare in trincea. Mi pubblicava articoli, seppur con lo pseudonimo, perché doveva fare i conti con il clima ostile. Continuammo insieme sulle riviste di Marcello Veneziani, come Lo Stato e L'Italia settimanale, quest'ultima nata nel '92, poco prima dell'avvento del centrodestra, che fece da battistrada al governo Fi-Lega-An. Ma appunto questo ci domandavamo, con insistenza: "Quali saranno le nuove generazioni culturali che si rifaranno all'idea di destra? Chi le aiuterà a venir fuori? Chi le sosterrà? Perché, ragionavamo, nel mondo della comunicazione, se le idee non si espongono non esistono». Ma qual era, la destra di Gianfranceschi? «Era cittadino di un mondo di rigore, di valori, di onestà intellettuale - spiega De Turris - Ed era cattolico, arrivato al cattolicesimo attraverso Evola. Sì, Evola, marchiato di razzismo. Non era questo, ma il portatore di una visione del mondo spirituale. S'inquadra qui anche l'antimodernismo di Gianfranceschi. Ricordo un suo libro, "Teologia elettrica", pubblicato da Volpe, nel quale criticava l'apertura del Concilio Vaticano II alla modernità». Nei libri e nella (s)fortuna di Gianfranceschi autore scava Stenio Solinas, il giornalista e scrittore che ha contribuito alla nascita di «Nuova Destra», ispirata a De Benoist. «Voglio ricordare due suoi saggi, che varrebbe la pena di ristampare, "Il sistema della menzogna e della degradazione del piacere" e "Svelare la morte". Nel primo si dimostra pensatore rigoroso, capace di analizzare la società del tempo. Nel secondo è capace di interrogarsi sul significato della vita e della sua fine. Poi c'è il Gianfranceschi romanziere. E voglio citare "Belcastro", del 1975, un'opera fantasiosa, vicina alla scrittura di Buzzati, sul quale scrisse anche un saggio. Riflette, in quelle pagine, il suo carattere di uomo elegante e ironico, capace di tener fede agli ideali, senza mai farsi abbattere. Credo proprio che, come autore, non abbia avuto quello che si sarebbe meritato. Perché ha scontato il clima di un'epoca nella quale essere di destra era considerata la morte civile. Però se ne infischiava di non essere considerato da quanti a sua volta non considerava affatto». Marcello Veneziani ha conosciuto Gianfranceschi che era poco più di un ragazzo, rimanendone affascinato. «È stato, tra coloro che appartenevano a una generazione diversa dalla mia, uno dei miei primi riferimenti. Fondamentale insegnamento il suo limpido esempio di coerenza morale e civile, il suo legame con la tradizione cattolica e con la destra dei valori, quella che sfidava il potere culturale e lo faceva in solitudine. Ero poco più che ventenne quando recensii il suo "Svelare la morte". Poi cominciai a collaborare a "Il Tempo". Ma quel libro resta una pietra miliare. Gianfranceschi combatteva trent'anni fa il tabù della morte, un tema ripreso oggi da Concita De Gregorio nel suo ultimo libro. Lottava contro il luogo comune che rimuove la morte, che la considera oscena. Lo faceva con lucidità, reduce da una drammatica esperienza personale che gli aveva portato via il figlio. Invece di eludere il trapasso, lo considerava complemento naturale dell'esistenza. Ed è tornato sul tema anche di recente, quando ha perso prematuramente una figlia. Così come alla nascita di un'altra aveva dedicato un volume. Ecco, può essere definito anche scrittore della famiglia perché come pochi ha saputo cantare il sentimento paterno». Anche Gennaro Malgieri riconosce in Gianfranceschi un maestro: «Con lui la cultura critica della modernità perde uno degli interpreti più lucidi ed efficaci. Un intellettuale raffinatissimo che ha aiutato il pensiero non conformista ad avere cittadinanza in un paese egemonizzato dal relativismo e dal materialismo pratico. A me è stato d'esempio nell'affrontare le prove più dure che il destino possa riservare». Una strada che Gianfranceschi ha condiviso con Alfredo Cattabiani, il direttore editoriale delle Edizioni dell'Albero, della Borla e poi di Rusconi, che ne pubblicò molti libri. «Fausto e Alfredo - ricorda Marina Cepeda Fuentes, vedova di Cattabiani - volevano essere intellettuali capaci di pensare e agire con la propria testa. Senza nessuno condizionamento da parte della politica».

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