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di Lidia Lombardi «Diffidate dalle imitazioni».

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Ela casa milanese spiega: i numerosi tentativi di imitazione degli ultimi mesi rendono ancora più speciale il libro di Truman Capote. Già, perché quel titolo è magico, ha visto fiorire intorno un indimenticabile film, una canzone fantastica - Moon River - e da qualche tempo due romanzi che hanno tenuto parecchio il primo posto in classifica e fatto la felicità dell'editore italiano, Newton Compton di Raffaello Avanzini. E che si chiamano «Un regalo da Tiffany» e «Un diamante da Tiffany». Se aggiungete poi che all'Ara Pacis ha tenuto banco in autunno una mostra di foto inedite di Audrey Hepburn, protagonista del film, icona di eleganza nonché bellezza familiare a Roma, dove visse sposando il medico Andrea Dotti, ecco che il «fenomeno Tiffany» si sfaccetta come un brillante, che sfolgora sempre, da qualunque parte lo si rigiri. Di più, è un «logo» tanto collaudato, che acceca comunque, pur se si tratta di un pezzo di vetro ben incastonato. In tutta la faccenda chi ci rimette è il povero Truman Capote. Provate a chiedere che cosa ha a che fare con Tiffany. I più non sapranno rispondere. Lo citano come l'autore di «A sangue freddo». E non ricordano che la pellicola con Audrey e Peppard è tratta dal suo romanzo. Anzi, stile, tematiche ed esistenza dello scrittore americano paiono lontani anni luce dal mondo dorato, un po' sdolcinato e strampalato nel quale vive l'eccentrica Holly Golightly, ovvero la Hepburn. In effetti la pellicola, girata nel 1961, è tanto diversa dal libro, uscito nel 1959, che ebbe ragione Capote a disapprovarla. Era un geniale scrittore dalla infanzia devastata - la madre lo lasciò crescere dai parenti e quando lo andava a trovare se lo tirava dietro all'amante di turno, il padre era assente, i compagni di scuola lo deridevano - e dalla gioventù contorta - rivelò presto la propria omosessualità. Dunque aveva provato sulla pelle che la vita non va affatto liscia, che l'ambiguità dei sentimenti, dell'etica, dei comportamenti è regola. E se visse nel magico cerchio dei salotti della Grande Mela, amico di Jackie Kennedy, di Humprey Bogart, di Andy Warhol, di Tenessee Williams, fu comunque un maudit. Eccessi di alcool, droga, sonniferi. E una morte a sessant'anni, nell'agosto del 1984, per cirrosi epatica, avvenuta in una casa non sua, ma dell'amica Joanne Carson, ultimo rifugio. Ci sono queste sabbie mobili, questo senso di insicurezza, di non appartenenza nell'autentico «Colazione da Tiffany». Fin dal bigliettino che la protagonista appiccica sulla cassetta delle lettere: Signorina Holly Golightly, in transito. Deliziosa d'aspetto, contorta nel carattere e nei sentimenti. Non ha mobili in casa, vive con un gatto trovato per strada e al quale non dà un nome. Strampalato il suo passato, ambiguo il suo presente, come pian piano lo ricostruisce un vicino di casa, un aspirante scrittore che è voce narrante del romanzo. Il libro comincia quando la loro storia è finita e lui la rivive in flashback. L'incontro, le serate passate insieme più amici che amanti, un texano che all'improvviso cerca Holly e rivela di averla sposata ragazzina per tirarla fuori da un'infanzia infelice. Il fratello di Holly muore in guerra, lei è disperata e tocca all'amico scrittore aiutarla. E ancora, un gangster carcerato a Sing Sing che Holly va a trovare per compassione in realtà le dà dritte mafiose da portare al proprio avvocato. Infine, gli uomini ai quali la ragazza si lega per sbarcare il lunario. Un odioso miliardario e un politico brasiliano che la mette incinta e la scarica quando viene arrestata per i «pizzini». Mentre lei abortisce per salvare da un cavallo imbizzarrito l'amico scrittore. Perfino al randagio la strana ragazza rinuncia. Si trasferisce da sola in Sud America e al vicino di casa non resta che cercare lo spelacchiato felino. Ora, di tanta confusione esistenziale, di tanti doppi giochi e soprattutto di così desolato epilogo non resta traccia nel film. Audrey Hepburn è perfetta nella parte della ingenua affascinante. Ma Capote avrebbe voluto la problematica, infelice, alcolizzata Marilyn Monroe nel ruolo di Holly-Lula Mae. Scompare nei fotogrammi il dramma della gravidanza ed entra invece un happy end estraneo alla ispirazione di Capote. E il glamour di Tiffany, mitica gioielleria di New York, che c'entra? C'entra perché è un dorato non-luogo nel quale Holly si rifugia quando ha «le paturnie». Un posto tanto improbabile per lei da farla sentire a posto. Un riflesso di quell'America vincente che invece, nelle vite della anticonvenzionale girl e del maledetto Truman Capote, è perdente. In un rovesciamento di prospettiva, in uno sfaldamento di certezze che è il leit motiv della vita di sempre e di tutti. E non solo degli States anni '60, rampanti ma minati dalla Guerra Fredda e poi dal Vietnam e con un futuro chiamato Twin Towers. Ma in quella di tutti i secoli, dove l'ombra è più larga del raggio di luce. Anche e soprattutto adesso, e in Europa. Invece che cosa troviamo nei cloni best seller della scorsa estate e dell'autunno? Plot da letteratura rosa, senza incrinature se non qualche litigio tra fidanzati, qualche scambio di pacchetti. Storie simili, perfette per distrarsi senza troppo impegno sotto l'ombrellone o accanto all'albero di Natale. Accomunate dalle copertine, dove campeggia una figura di donna che allude alla Hepburn. Firmate sì da due autrici diverse - Melissa Hill per «Un regalo da Tiffany» e Karen Swan per «Un diamante da Tiffany» - epperò orientate entrambe verso il più carismatico negozio di gioielli. È da qui che deve uscire la scatolina blu che ogni donna desidera. Ma che cosa fa dire Capote a Holly a proposito di Tiffany? «Non è che me ne freghi niente dei gioielli. I brillanti, sì. Ma è cafone portare brillanti prima dei quaranta, ed è anche pericoloso (...). Ma non è per questo che vado pazza per Tiffany. Sapete quei giorni, quando vi prendono le paturnie? (...) Le paturnie sono orribili. Si ha paura, si suda maledettamente, ma non si sa di cosa si ha paura (...) Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany. È una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell'aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei cortesi signori vestiti così bene, quel simpatico odore d'argento(...) Se riuscissi a trovare un posto vero e concreto dove abitare che mi desse le medesime tentazioni di Tiffany, allora comprerei un po' di mobili e darei un nome al gatto». Sorriso amaro.

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