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La Carmen trasloca in Sicilia

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Lanovità di questa Carmen, che a Catania mancava da 13 anni, era in un allestimento, firmato dal sicilianista Vincenzo Pirrotta, quasi completamente privo di scene, in cui alcuni tavoli passepartout fungono ora da alcova per i due amanti, ora da recinzione del campo gitano, ora da spalti per la plaza de toros. Non mancano neppure esplicite allusioni alla realtà sicula, come il patto di sangue tra i due antagonisti o il duello alla maniera rusticana e persino arance palleggiate da un popolo festante. Ma le forzature non sviano dal tono dominante, fatalistico, in cui la carne esposta (delle ragazze sempre accalorate) e il sangue versato sono appuntamenti irrinunciabili. La vicenda di amore e morte da moderna tragedia è così giocata tutta sulle luci, bellissime e cangianti, sui variopinti colori del costumi che richiamano Goya, su elementi simbolici come le appese croci luminose. Peccato però che solo la brava Rinat Shaham, vista a Roma nel medesimo ruolo, possegga le phisique du rôle di una Carmen carnale e provocatoria, mentre il torero Escamillo sembri piuttosto un impiegato del catasto e Don José un malcapitato contadinotto. Pregevole risulta la maniera di muovere le masse, sia nella megarissa iniziale, sia nell'attesa della parata finale con il popolo esultante alla ribalta prima della decisiva e contemporanea doppia sfida, tra Escamillo e il toro da una parte, tra Don José e Carmen dall'altra. Vincente anche la scelta di Humburg di sopprimere gli inutili recitativi di Guiraud, conservando però l'ineguagliabile orchestrazione di Bizet. Vocalmente ineccepibile solo la Micaela collegiale di Tatiana Lisnic. Coro e orchestra hanno dato prova di bella maturità. Alla fine il competente pubblico etneo ha decretato tiepidi applausi per gli interpreti e qualche dissenso per la regia.

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