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di Ruggero Guarini Speriamo che il Natale scacci il catastrofismo.

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Menomale anche perché uno dei suoi più lieti e benefici effetti potrebbe essere una salutare sospensione della gran chiacchiera catastrofista che con la sua incessante evocazione dei baratri in cui staremmo precipitando sta trasformando una congiuntura certamente grave e seria in un preludio alla fine del mondo. Il primo dei molti miracoli che vorremmo che il Bambinello, venendo alla luce, compisse, è insomma proprio l'ammutolimento di tutti quei profeti di sventura che forti di quattro soldi di vero o supposto sapere economico, nonché di una evidente vocazione al malaugurio, non sognano altro, che un mondo avvolto nei loro funerei discorsi. Intanto, per prepararmi a gustare il momento in cui il Bambinetto nascendo farà restare di botto tutti questi iettatori, almeno per un istante, senza parola, mi preparo a festeggiare l'imminente lieto evento tornando a sfogliare quel vangelo apocrifo «Natività di Maria e di Gesù», in cui il parto della vergine viene annunciato da una miracolosa sospensione del tempo. Passo davvero incantevole giacché quella concisa descrizione della natura bloccata nella stupefatta fissità di un paesaggio sottratto al tempo e consegnato al bagliore di un istante eterno rivela l'intima essenza della poesia del presepe. Tratte da un papiro risalente, secondo gli esperti, al VI secolo, quelle righe così riferiscono il racconto della levatrice di Maria, Zachele: «Quando entrai per visitare la fanciulla (la narratrice è un'ostetrica di nome Zachele) la trovai con la faccia volta verso l'alto, fissa al cielo, e parlava tra sé. Penso che pregasse e benedicesse l'Altissimo. Mi accostai a lei, le dissi: "Dimmi, figlia, senti qualche dolore o c'è qualche punto delle tue membra che è dolente?". Ma come se non sentisse nulla e fosse un solido masso, se ne stava immobile guardando fissa in cielo. Nel più grande silenzio, in quel momento si sono fermate tutte le cose, con timore: infatti, cessarono i venti, non dando più il loro soffio, non s'è più mossa alcuna foglia degli alberi, non s'è più udito alcun rumore di acque, non scorsero più i fiumi, non ci fu più il flusso del mare, tacquero tutte le fonti di acqua, non risuonò più alcuna voce umana: c'era un grande silenzio. In quel momento, lo stesso polo cessò l'agilità del suo corso. Le misure delle ore erano quasi tramontate. Con timore grande, tutte le cose tacevano stupite, mentre noi eravamo nell'attesa della venuta della maestà del termine dei secoli». Quale straordinario documento della pietà popolare dei primi secoli cristiani è questo umilissimo testo...Quale mirabile accordo di candore e profondità risuona nel sentimento di estatica meraviglia che vi è espresso...E quale toccante realismo creaturale vi aggiunge il particolare, decisivo, che la voce narrante è quella della levatrice di Maria. Il cui racconto prosegue così: «Approssimandosi, dunque, il momento, la potenza di Dio apparve palesemente. La fanciulla che stava guardando verso il cielo diventò bianca come la neve: si approssimava, infatti, il compimento dei beni. Uscì fuori la luce, e lei adorò colui che aveva partorito. Il bambino rifulgeva tutt'intorno come il sole e il suo aspetto era puro e giocondo, perché apparve solo come pace che tutto placa. Nel momento in cui nacque, si udì la voce di molti esseri invisibili che dicevano all'unisono: "Amen". Questa luce nata, si è moltiplicata e ha oscurato, con lo splendore del suo chiarore, la stessa luce del sole, e questa grotta si è riempita di uno splendido chiarore e di un odore soavissimo. Questa luce è nata così come discende dal cielo la rugiada sopra la terra. Il suo profumo è olezzante più di ogni profumo di aromi». Segue quello che forse è il passo più singolare di questo testo: ossia l'episodio (una prodigiosa mistura di puerile credulità e crudo realismo) della verifica, da parte di un'altra levatrice, di nome Salome, della verginità di Maria dopo il parto: «L'ostetrica le disse: "Ho una cosa nuova da dirti, Salome!". Quella rispose: "Di che si tratta?". L'ostetrica le disse: "Una vergine ha partorito un maschio e la natura della vergine rimase chiusa, il che una volta parve difficile". Salome le rispose: "Viva il Signore! Se proprio non constaterò io stessa, non crederò che una vergine partorisca". E quella, all'ostetrica: "Andiamo assieme da lei". Entrate da Maria, Salome le disse: "Allargati, figlia, affinché io ti esamini e sappia se è vero quanto mi ha riferito Zachele". Avendo Maria acconsentito, quella scrutò diligentemente e trovò che era proprio come le aveva detto l'ostetrica. Quando però estrasse la sua mano destra dall'ispezione, per il grandissimo splendore, subito le si inaridì; iniziò a dolersi con veemenza e, piangendo, gridava: "Guai alla mia iniquità e incredulità! Io infatti ho tentato il Signore, ed ecco che la mia mano brucia dal fuoco"». Ma mentre Salome si dispera, appare un angelo che le dice di avvicinarsi al bambino. E quando lei gli si accosta sfiorando con le dita le frange dei panni che lo fasciano, subito la sua mano si risana. L'epilogo è perciò rassicurante. Tuttavia questa mano ustionata per castigo dalla vagina di Maria vergine è forse l'invenzione più sconcertante dell'antica aneddotica mariologica. E adesso onoriamo il Natale riportando la prima strofa della versione in napoletano del famoso «Tu scendi dalle stelle», dovuta anch'essa, come il testo in lingua, a sant'Alfonso de' Linguori: «Quanno nascette Ninno, | quanno nascette Ninno a Bettelemme, | era notte e pareva miezojuorno... | Maje le stelle | lustre e belle | se vedèttero accussí | e 'a cchiù lucente | jette a chiammá li Magge a ll'Uriente» . Quale candida fusione di umana tenerezza e gloria cosmica!

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