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di Lidia Lombardi La prima volta ci viene nel 1822 sperando di trovare tempo mite anche durante la brutta stagione e un'occupazione presso l'amministrazione di Papa Re.

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Tornanel 1831, in un ottobre mite. Ma l'impatto con la caput mundi è ancora peggiore. Insomma, per Giacomo Leopardi Roma è una delusione. Lo testimoniano le lettere inviate dall'intellettuale e poeta durante i soggiorni nella città eterna. Che adesso Lozzi pubblica in «Roma era bianca dalla neve», un volumetto con la prefazione di Giulia Alberico che inaugura il progetto «Remo, l'altro modo di raccontare Roma». Dove vive, come passa le giornale il malaticcio conte di Recanati? Durante il primo soggiorno, da fine novembre a fine aprile 1822, nella casa del blasonato zio Carlo Antici il quale aveva sposato l'ultima erede del duca Asdrubale Mattei. Cotante nozze avevano dato alla coppia un'avita dimora in via Caetani 32, a un passo dal Campidoglio. Ma nel severo palazzo Antici-Mattei - progetto del Maderno - il Nostro viene sistemato in una stanzetta fredda ai piani più alti. Insomma, quasi una soffitta. L'inverno è rigido, «Roma era bianca dalla neve» scrive appunto il solitario giovane. Perché sì, frequenta i teatri - melodrammi in scena al Valle, all'Argentina - pranza con letterati e porporati, studia nelle biblioteche private come la Barberina. Ma si sente spaesato in quella che gli appare una metropoli dispersiva, qual si configurava Roma, pur nei suoi contenuti 300 mila abitanti. Sono gli anni immediatamente successivi a ritorno di papa Pio VII dopo la parentesi-Napoleone. Bonaparte ha commissionato al Valadier l'«anfiteatro» di Piazza del Popolo e scompaginato parte del Quirinale per abitarvi, anche se poi non ci metterà piede. «Cara Paolina - scrive Giacomo alla sorella il 3 dicembre 1822 - volete sapere se Roma mi piace, se mi diverto, che vita faccio? Tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che le frivolezze di queste bestie passa i limiti del credibile. Tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di San Pietro. Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero di gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate». Insomma, il gigantismo della città gli dà fastidio. «Pare che questi fottuti Romani che si sono fatti palazzi e strade e chiese e piazze vogliano farsi anche i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino a un certo segno», osserva metà provinciale e metà raffinato. Non lo intrigano più di tanto le occasioni di festa, né le donne romane. È vero, come confida in una missiva al fratello Carlo, «lo spettacolo del corso è veramente bello e degno di essere veduto (intendo il corso di carnevale)». Per Giacomo - che ha 25 anni e che guarda da dietro gli occhialini, la lorgnette, le signore danzare nel bailamme del giovedì grasso - «una donna né col canto né con altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo». Ma poi si stufa del chiasso. E le femmine gli paiono tutte volgari, brutte, sciocche, puttane. L'emozione arriva al Gianicolo, davanti alla umile tomba di Torquato Tasso e alla quercia dove l'autore della Gerusalemme liberata si sedeva a meditare. «Fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato a Roma», commenta. Lo prendono anche i funerali nella basilica dei Ss. Apostoli di un grande che non ha fatto in tempo a conoscere, Antonio Canova. Un accidente che lo fa virare nel consueto pessimismo: «Vedi ch'io sono pure sfortunato, come soglio, poiché quando aveva pure ottenuto, dopo tanti anni e tanta disperazione, d'uscire dal mio povero nido e veder Roma, il gran Canova appena un mese avanti il mio arrivo in questa città piena di lui se n'è morto». Il secondo soggiorno è ancora più amaro. Il poeta abita in affitto con Antonio Ranieri. Prima un appartamento in via delle Carrozze 63, poi in via dei Condotti 81. Più chiuso e più solo, gli interessa solo perorare la causa del rientro a Napoli dell'amico, che era stato allontanato dalla città del Vesuvio per motivi politici. Non frequenta porporati, né eruditi. Scambia una fitta corrispondenza con Viesseux a Firenze, con de Sinner a Parigi. Non va oltre l'angusto giro degli uffici della Dogana in piazza di Pietra, via dei Condotti, piazza del Popolo e «piazza della Tartaruga» come, per via della fontana, chiama piazza Mattei dove si reca in visita allo zio Antici. E liquida il clero non potendone più «di costumi rancidi, e il veder far di cappello ai preti, e il sentir parlar di eminenze e di santità». Lascia per sempre Roma a marzo. Quasi facendo spallucce - rivela a Pilla, il soprannome della sorella Paolina - «di non aver riveduto San Pietro, né il Colosseo, né il Foro, né i Musei, né nulla: senza aver riveduto Roma».

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