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Con la sua ambizione il marito «mezzosangue» divenne Tarquinio Prisco

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Unnome dolce e avvolgente, come il verso delicato di una ninna nanna, come lo sciabordio costante e leggero dell'onda del mare contro lo scoglio... Tanaquilla era una nobile donna etrusca, fiera e volitiva, ricca quanto ambiziosa, ammantata di sacralità perché esperta nell'aruspicina. Ma basta leggere un passo di Giovenale per capire di più di una femmina realmente vissuta ma passata dalla storia alla leggenda: «non ha mai destato tenerezze, resta nella memoria come una strega o quasi, si connota nel sentire comune come spregiudicata e interessata». La nobile Tanaquilla è l'esempio più chiaro dell'emancipazione, del prestigio e dell'elevazione socio-culturale della donna etrusca. Nessun altra donna di quell'epoca, probabilmente, ha influito nelle vicende dell'umanità come lei. Non una guerriera che si batte per i suoi diritti, ma una risoluta calcolatrice, una stratega con grande spirito decisionale, capace della più acuta e fredda analisi politica come della più assoluta dedizione al suo uomo e al progetto che ha concepito su di lui. Thanachvil, in etrusco arcaico, era la donna che più assomigliava alla sua città, la splendida Tarquinia, dove nacque verso la metà del VII secolo a.C. da una nobile famiglia. Sapeva leggere i segni attraverso i quali si manifestavano gli Dei e, come toccata dal divino, aveva il dono di interpretarli in modo da eliminare da essi tutto quello che si opponesse alla propria volontà e allontanare ogni significato che ostacolasse i suoi progetti, trasformando così il suo fascino divinatorio in potere personale al quale tutti finivano per piegarsi. Sposò Lucumone, figlio di Demarato, un nobile e ricco cittadino di Corinto, (la presenza di corinti conferma gli influssi della civiltà greca su quella etrusca) da dove era stato espulso per motivi politici, riparato a Tarquinia che aveva inondato di bellezze e ricchezze, dove si era sposato e aveva avuto due figli. Lucumone era saggio e generoso ed inoltre sapeva combattere a cavallo e a piedi più coraggiosamente degli altri. Nonostante tutto, però, la tradizione etrusca non permetteva ad uno straniero, un mezzosangue, di aspirare alle cariche cui avrebbe potuto accedere per lignaggio e ricchezze. L'esclusione dai giochi del potere sembrò intollerabile a Tanaquilla, che oltre a non sopportare di essere inferiore alle sue concittadine, avrebbe voluto per il marito una prestigiosa carriera. La nobildonna cercò allora di raggiungere potere e prestigio pensando in grande e percorrendo l'unica via possibile: lasciare la patria. Convinse allora Lucumone a cercare fortuna e gloria in una città abbastanza giovane, una Roma ancora in cerca della propria identità e dove tutto poteva accadere a chi era ricco e intraprendente. Una città dove aveva trovato cittadinanza un sabino come Tazio, c'era già stato un re straniero di nome Numa Pompilio, voluto dai Curi, la città rivale e capitale dei sabini, e lo stesso Anco era arrivato al potere pur avendo la madre sabina. «Facile persuadet ut cupido honorum et cui Tarquinii materna patria tantum esset» racconta Livio. Fu Tanaquilla, che orgogliosa e impavida sapeva guidare i veloci carri da corsa degli etruschi, a prendere personalmente le redini del «pilentum» a quattro ruote carico di vasi dipinti e preziosità di ogni genere con il quale lasciò Tarquinia insieme al suo compagno, per affrontare un destino che avrebbe cambiato la storia. Scesero lungo la costa fino alle foci del Tevere e risalirono arrivando sul Gianicolo. Qui accadde un evento prodigioso: un'aquila piombando dal cielo ad ali spiegate, ghermì il cappello di Lucumone e, dopo aver volteggiato in aria, glielo ripose sul capo, come se volesse giocare o «dire» qualcosa. Infine si rialzò in volo e sparì nel cielo altissimo. Lucumone ebbe paura perché ritenne il presagio infausto. Tanaquilla, invece abbracciò con riverenza il marito e vaticinò la gloria che lo attendeva: l'uccello è messaggero di Giove, manifestazione della sua volontà. Del resto l'aquila è il volatile più presente nella mitologia in quanto esecutrice degli ordini di Zeus: reca i fulmini con cui il dio dovrà piegare la minaccia dei Giganti e su suo ordine va ogni giorno a sbranare il fegato di Prometeo. Inoltre quando deve rapire Ganimede, Giove stesso prende le fattezze di un'aquila. Telamone capisce da un'aquila inviata dal padre degli dei che il figlio che sta per nascergli sarà una grande eroe. Lo chiamerà Aiace, nome che si lega alla parola aquila. Il babilonese Clini, protetto e prediletto da Apollo viene trasformato in aquila a conforto della punizione ricevuta per un sacrificio proibito. Merope, disperato per la morte della moglie, la ninfa Etemea, viene consolato da Era che lo trasforma in aquila e poi lo porta in cielo, tra gli astri. È a questo punto che Livio consacra Tanaquilla come perita «ut vulgo Etrusci, caelestium prodigiorum mulier» fama che le resterà appiccicata nei secoli e nei millenni. Infatti Tanaquilla rassicurò il suo compagno dicendogli che il rapace era giunto proprio dalla parte migliore del cielo, gli ha portato via il berretto per avvicinarlo al dio, consacrarlo e restituirglielo divinizzato. Come dire, che lui stava entrando in città da vero capo voluto dagli dei e che avrebbe reso Roma magnifica e più potente. Insomma, un grande destino li attendeva. Infatti, alla morte di Anco Marzio, Lucumone divenne con il nome di Lucio (Luchmon) Tarquinio (proveniente da Tarquinia) Prisco, il quinto re di Roma, il primo dei re etruschi. In quel tempo Roma non era una vera città: pochi villaggi sui colli e grandi paludi in pianura. E Tarquinio fu l'autore di una prima bonifica della storia: drenò e trasformò il terreno prosciugato in mercato, il futuro Foro Romano e di qui fece partire un reticolo di strade lastricate tra le quali la Via Sacra. Poi costruì gli edifici che sarebbero rimasti per sempre il nucleo monumentale dell'Urbe. Infine, trasmise ai romani tutti i cerimoniali e i simboli che a Tarquinia significavano l'autorità: i littori con i fasci di verghe e la scure, le porpore ricamate, le corone d'oro, i troni e gli scettri d'avorio sormontati dall'aquila e l'uso di trionfare sul carro aureo a quattro cavalli. Tarquinio Prisco fu un re di successo: allargò la base del suo potere facendo entrare in Curia cento nuovi senatori. Roma con lui si sprovincializza e resta incantata: corse di cavalli, pugilato, musici, danzatori, artisti, giochi stabili e celebrati ogni anno. Circo Massimo e Foro acquisiscono quella fisionomia brulicante di umanità che caratterizzerà l'Urbe nei secoli a venire. Con furba avvedutezza esalta, lui etrusco, lo spirito nazionale romano, delimitando sul Campidoglio l'area in cui sorgerà il tempio dedicato a Giove. Da allora Roma incominciò a rincorrere un sogno: diventare nel tempo raffinata come Tarquinia e superarla in grandezza e splendore. Poi, negarne con crudeltà la dipendenza e cancellarne per sempre il nome dalla storia. Però c'era ancora spazio per l'ambizione e la smania di emergere in Tanaquilla che legò ancor di più il suo destino a quello della città. Un giorno accadde un fatto strano: un fanciullo dalle origini oscure, per qualcuno addirittura figlio di una schiava, ha, mentre dorme, il capo circondato dalle fiamme. Tanaquil parla al marito. Il ragazzino si chiama Servio Tullio. In realtà non è figlio di una schiava, è figlio di una nobildonna proveniente dalla sconfitta città di Corniculo, diventata amica di Tanaquilla. E la regina ha evidentemente intuito le doti del ragazzino. Ma la voce che sia figlio di una schiava fa il gioco dei figli del re Anco Marzio che mai hanno digerito di essere stati sopravanzati da Tarquinio che è diventato il loro tutore. Sarà Tanaquilla a fare adottare il piccolo Servio Tullio del quale interpreta il destino e a cui darà in sposa una delle proprie figlie. Divenuta ormai romana, l'etrusca visse per una trentina d'anni come un'autentica first lady: soltanto apparentemente dietro le quinte, eclissata in un'ombra dorata da cui però dirigeva, con consigli e suggerimenti, la carriera politica del marito. Poi arrivò la vendetta dei figli di Anco Marzio: furono loro ad organizzare il complotto che a Tarquinio costerà la vita. Due pastori, fingendo di voler parlare al re, riuscirono ad avvicinare Lucumone e a ferirlo a morte a colpi di mannaia. La sessantenne Tanaquilla prese in mano la situazione dimostrando una padronanza di nervi e una freddezza impensabile. Fece trasportare dentro casa il marito morente e per nascondere quel che stava avvenendo, chiuse tutto e fece allontanare i curiosi. Poi disse a Servio Tullio quello che avrebbe fatto con il suo sostegno non senza aver prima, straziata nel cuore ma sorridente in viso, fronteggiato il «clamor impetusque multitudinis», e dall'alto del palazzo che sorgeva vicino al tempio di Giove Statore e aveva le finestre che guardavano sulla Via Nuova, arringò la folla convincendola che il marito era scampato all'attentato ma aveva bisogno di lunghe cure. La regina aveva di fatto designato il nuovo re Servio Tullio che fu il primo a regnare, come scrive Livio, «iniussu populi voluntate patrum». L'anziana nobildonna etrusca fece un discorso schietto, impegnativo, coraggioso contro i congiurati e ancor più contro la successione dei suoi stessi figli, Arunte e Lucio: «tuum est, Servi, si vir es, regnum, non eorum qui alienis manibus pessimum facinus fecere...». Anche in vecchiaia, Tanaquilla non aveva perso il suo spirito giovanile, la sua tempra di stratega, di grande donna. Alla morte del marito, il vero re è lei, padrona di una situazione difficile anche se donna con le sue fragilità. Infatti nominò re Servio ma fece appello nel suo discorso alla necessità che l'atroce delitto del marito non rimanesse senza vendetta. E poi «ne socrum inimicis ludibrio esse sinat», chiese umilmente al nuovo re di non lasciare la suocera allo scherno dei nemici. Era il 579 avanti Cristo. Assicurare il trono al giovane Servio Tullio, dopo aver nascosto al popolo la morte del sovrano, fu apparentemente l'ultimo atto di Tanaquilla che sparì dalla scena pur restando per qualche tempo alle spalle di Servio Tullio. Ma il suo fantasma tormentò Tullia, moglie di Tarquinio il Superbo la quale non riusciva a darsi pace che una «peregrina mulier, tantum moliri potuisset ut duo continua regna viro ac deinceps genero dedisset», che una donna straniera fosse riuscita a brigare tanto da procurare due regni, uno dopo l'altro, prima a suo marito, poi al genero. Una donna straniera, devota del marito, ambiziosa per se stessa ma anche per lui. Una etrusca un po' strega le cui reliquie, secondo Plinio che riprese alcune notizie da Varrone, furono venerate come oggetti di culto. In particolare la conocchia, conservata nel tempio di Sanco, sul Quirinale, e il manto da lei stessa intessuto per Servio Tullio, conservato nel tempio della dea Fortuna. Un'autentica venerazione per una donna diversa ed eccezionale rispetto alle sue contemporanee: una costruttrice di politica, la prima stratega. domani Eleonora d'Arborea

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