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La «verità» di Redford sull'omicidio Lincoln

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Quellastessa sera venivano uccisi anche il vicepresidente Andrei Johnson e il ministro degli Esteri William Steward, tutti vittime di una cospirazione che, appena terminata a favore dei Nordisti la guerra fra Nord e Sud, mirava a destabilizzare gli Stati Uniti aggredendoli sul fronte interno. La reazione, naturalmente, oltre ad essere immediata, fu durissima e presto alcuni congiurati si trovarono di fronte a un tribunale militare pronto a giudicarli secondo le leggi di guerra, non risparmiando dalle accuse neanche la madre dell'unico cospiratore riuscito a fuggire, che a un certo momento si trovò ad avere come avvocato difensore un ex militare dell'esercito nordista all'inizio molto restio ad occuparsene, poi portato a farlo perché per nulla convinto della legalità di quel processo con cui dei militari, anziché dei civili, avevano finito per trovarsi nella necessità di dare in tutti i modi un esempio per placare l'indignazione dell'opinione pubblica. Il film è questo processo, seguendo via via il mutamento psicologico del giovane avvocato (con il vuoto attorno dato che nessuno condivideva il suo atteggiamento) vedendogli mettere in atto ogni mezzo per salvare la donna da quel capestro che pensava non meritasse ma che alla fine non riuscirà ad evitarle. Manca però la tensione solita dei processi hollywoodiani, nonostante la regia se la sia assunta Robert Redford dopo film di meriti certi quali "In mezzo scorre il fiume" e "L'uomo che sussurrava ai cavalli". Gli scopi polemici su un dubbio uso della giustizia in determinate situazioni sono evidenti, ma non li sostengono gli impeti necessari, con dialoghi spesso un po' retorici e immagini, sullo sfondo, che rasentano molto più l'oleografia che non la cronaca. Gli interpreti, decorosi, recitano come se si trovassero in un telefilm. Cito almeno, perché abbastanza concreti, James McKay, l'avvocato, e Robin Wright, l'imputata.

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