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Letta il teorico della concordia

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Questaè però la prima volta che sono chiamato a svolgere una “Laudatio”, fra l'altro, rivolta proprio ad una delle (purtroppo molto rare) personalità indubbiamente più autorevoli, complesse e universalmente stimate della Repubblica. Spero di esserne all'altezza, e nel rappresentare i tratti biografici fondamentali e la natura più profonda del civil servant Gianni Letta, attingerò soprattutto a quella che mi sembra l'unica sua rilevante presa di posizione pubblica, contenuta nel mio libro “Chi è Stato? Gli uomini che fanno funzionare l'Italia” (Rubbettino), in cui, non a caso, accanto al denso e ricco capitolo relativo a Gianni Letta, c'è un capitolo relativo a Gaetano Gifuni, un uomo, se possibile, ancora più parco di Letta nelle dichiarazioni pubbliche. Spero che queste mie annotazioni non siano colte come narcisistici “autobiografismi da scrittore”, bensì come contributo a cogliere la vera dimensione in cui Letta ama riconoscersi ed essere riconosciuto, praticando, fra l'altro, Lui, uno stile “silente, ma non certo assente”, come un capofila autorevole dei civil servant italiani, Carlo Azeglio Ciampi, amava definirsi nel corso del suo settennato alla Presidenza della Repubblica. Secondo di otto figli di un avvocato di prestigio di Avezzano, abbandona la pratica legale nello studio del padre (una formazione giuridica iniziale che come vedremo gli sarà utile nel futuro) perché colto dal “sacro fuoco” del giornalismo di provincia, destinato però presto a diventare “giornalismo nazionale”. Dopo aver attraversato le funzioni chiave nel prestigioso Tempo di Renato Angiolillo, superò legittimi timori per diventarne prima Direttore amministrativo e poi, dopo soli quindici anni di militanza nel giornale, Direttore ed Amministratore delegato, nel 1973. Solo nell'87 accettò le da tempo ripetute e pressanti richieste di Silvio Berlusconi (che in quel caso non sbagliò certo la mira) di svolgere il ruolo di Vicepresidente di Fininvest Comunicazioni, mostrando in quella funzione tutte le sue doti di relazioni istituzionali e diplomatiche. Il resto è cosa abbastanza nota: inizia il Suo cammino da uomo di cultura prestato alle Istituzioni (un prestito che per fortuna dura e durerà ancora) con la prima emersione nel ruolo istituzionale di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nella breve parentesi del Governo Berlusconi del '94, poi nel quinquennio 2001 – 2006 e, per venire ai giorni nostri, nell'ultimo triennio. Nell'esercizio di questo ruolo, avendo fatto propria la massima di Richelieu secondo cui “Bisogna ascoltare molto e parlare poco per governare bene uno Stato”, è forse colui che conosce più da vicino limiti, vizi e virtù della nostra classe politica, e anche degli altri spezzoni delle classi dirigenti. E proprio per questo mi sembra da sempre attento a ricercare – nell'ambito di un sistema affetto dal male della divisività – tutti i possibili fattori che uniscono invece di quelli che dividono. Pur nei limiti del tempo assegnatomi, vale la pena citare brevemente le personalità che – sulla base della valutazione dello stesso Letta – più profondamente hanno influenzato la sua vita, non solo quella professionale. Ovviamente, oltre a Silvio Berlusconi. In primo luogo Enrico Pozzani, un imprenditore milanese che fu per tanti anni Presidente del Cavalieri del Lavoro, da cui lo stesso Letta afferma di avere imparato la precisione. Quindi, Carlo Pesenti, che gli ha fatto scoprire il mondo delle aziende, delle banche, dell'industria. È da queste ed altre esperienze che Letta ha tentato di innestare nel mondo stagnante della Pubblica amministrazione principi e metodi dell'impresa privata, per snellire e svecchiare metodi troppo vecchi e burocratici. In tal modo si profila una figura di civil servant più alla francese che all'italiana. Come è noto, infatti, i grand commis d'Etat provenienti dal sistema francese delle Grandes Ecoles, possono assumere posizioni di vertice o di alta consulenza, indifferentemente nel settore pubblico e nelle imprese o nelle banche private, essendo figli di una “contaminazione felice” tra pubblico e privato (giungendo poi, in non pochi casi, a posizioni da Ministro, Primo Ministro o addirittura Presidente della Repubblica). Mi sembra proprio questo l'apporto originario di cui si avvale il grand commis Letta nell'esercizio del suo ruolo, avendo Lui stesso, tra l'altro, rilevato, nel libro citato, che “il buon funzionamento sia del pubblico che del privato sono fondamentali per consolidare e migliorare l'immagine di un Paese, che deve quotidianamente fare i conti con la competizione internazionale”. Ma ci sono almeno due altri fattori che denotano la sua profonda natura di civil servant. Più volte ha rivelato di considerare il momento più esaltante della sua esperienza di Governo quello del Preconsiglio dei Ministri. Mi permetto di citare le sue parole “Lì mi ritrovo appunto con i civil servant, i capi degli uffici legislativi, i capi di Gabinetto di tutti i Ministeri. Lì le decisioni prendono forma giuridica… e si discute del merito e della forma dei singoli provvedimenti. È li che ho imparato tutto quello, poco o tanto che sia, che sono poi riuscito a fare. Da loro, dai veri servitori dello Stato, ho avuto l'esempio e lo stimolo di quello spirito istituzionale con il quale affrontare tutti i problemi”. È lo stesso Letta che sottolinea che “sembra mancare, sempre più spesso, quel senso dello Stato e quel culto delle Istituzioni, senza dei quali nessuna democrazia può vivere e crescere nella coscienza popolare”. Avviandomi a concludere, non posso non ricordare una vicenda che ho vissuto direttamente, quando all'Assemblea della Confindustria del 2006 quel Gianni Letta che da civil servant alla francese conosce da vicino anche il mondo privato, riceve una vera e propria standing ovation, tanto che il Ministro dell'Industria di allora, Pier Luigi Bersani, da oratore del Governo, si associa all'applauso “perché Gianni Letta è veramente il monumento vivente della differenza che c'è tra il fare e il parlare”, interpretando così l'opinione dei presenti di allora e – credo – anche l'opinione di Noi qui presenti. In conclusione, con un'operazione un po' ardita, vale la pena tentare di riassumere il sapere, il saper fare, e il saper essere del Nostro Premiato, prendendo in prestito da Lui doti che Egli, citando uno studioso americano esperto internazionale di gestione di impresa, Jerry Manas, attribuisce a Silvio Berlusconi. Doti che – e mi scuso con Letta per l'operazione ardita – mi sembra si attaglino di più a Lui stesso, forse anche perché non conosco da vicino Berlusconi: Esattezza: Consapevolezza, ricerca e pianificazione continua; Rapidità: ridurre le resistenze, aumentare l'urgenza e mantenere la focalizzazione; Flessibilità: costruire team che siano adattabili, autonomi e unificati; Semplicità: obiettivi, messaggi e processi chiari e semplici; Carattere: Integrità, calma e senso di responsabilità; Forza morale: impartire ordini, fornire uno scopo, attribuire un riconoscimento e dei premi. Gianni Letta, con la sua effervescenza e instancabile capacità di lavoro al servizio dello Stato, forse non amerà per la sua età (peraltro vissuta con tempra giovanile), ancora vicina ai settant'anni, essere definito “quasi grande vecchio”, ma certamente sarà nei prossimi anni un “grande vecchio”, ancora al servizio del Paese.

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