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Vasco Pratolini con Metello il primo «fasciocomunista»

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Paroladi un altro fascicomunista d.o.c., Antonio Pennacchi, che rilegge per Rizzoli «Metello», forse il romanzo più famoso dello scrittore fiorentino (la nuova edizione, pp. 484, euro 9, è in libreria), cogliendovi i quarti di nobiltà di una sana coscienza di classe. In «Metello» ci sono ben rappresentati gli albori del movimento operaio, la lotta quotidiana per il lavoro, il pane, la democrazia, il sentimento generoso della solidarietà sociale, la vocazione alla giustizia: e il giovane protagonista, il muratore Metello Salani, è l'eroe di battaglie e conquiste che ancor oggi sono tutt'altro che un dato acquisito (Pennacchi non lo dice esplicitamente, ma «Metello» andrebbe letto - o riletto - insieme al suo «Mammut», di recente pubblicato da Mondadori e a cui il nostro giornale ha dedicato ampio spazio). La «bellezza» di Metello sta nel fatto che non è un santino da parrocchia marxista: in lui ci sono luci ed ombre che ne fanno un personaggio carico di disarmante «umanità». Bello insomma, perché è vero, perché non è «tutto d'un pezzo» come un soldatino dell'ideologia. E fatto della stessa pasta - pasta proletaria - dei coloni, maschi e femmine, di «Canale Mussolini»? Crediamo proprio di sì, come crediamo che la «simpatia» di Pennacchi per Pratolini nasca dalla comune vocazione epica e nazionalpopolare, decisamente lontana da ogni ammiccamento allo snobismo della borghesia progressista e radicalchic. Avversata come «il nemico principale» dai fascisti «duri e puri», quelli che agitavano la bandiera anticonservatrice a anticapitalista, e credevano nella necessità di una «seconda ondata», completa di riforme radicali e di rivoluzione sociale. Anche perché spesso l'esperienza della povertà - e il sentimento dell'ingiustizia di fronte a una società divisa in classi - l'avevano patito sulla pelle. Come Pratolini, figlio di una sarta e di un commesso, e costretto a mettersi a lavorare a dodici anni. Ma Vasco, con la furia dell'autodidatta, studia, legge, comincia a scrivere. Il Regime, la rivoluzione sociale l'ha rimandata a data da destinarsi, ma ai «poveri» come Vasco non mancano le occasioni di farsi sentire. Nei gruppi giovanili fascisti, sulle riviste dei GUF, su testate militanti come «Il Bargello» diretta da Alessandro Pavolini, destinato alla «bella morte» sotto le insegne di Salò, ma allora intellettuale aperto e problematico. Sono tutti spiriti inquieti gli intellettuali con cui Pratolini ha a che fare: si chiamano Ricci, Maccari, Bilenchi, Rosai, Vittorini, Montanelli, Gatto (con lui Vasco fonderà nel 1938 «Campo di Marte»), dibattono le idee con passione, sventolano un appassionato anticonformismo, sfottono gerarchi e gerarchetti, partecipano ai Littoriali della Cultura… Sono già antifascisti? Non lo sono ma lo diventeranno? Già, ma quando? A proposito di Pratolini, Pennacchi scrive che «la sua formazione avviene tutta durante il fascismo, anzi all'interno del fascismo stesso». E ancora: «A differenza di quanto sostenuto da alcuni, si tratta di vedere se quella "coscienza di classe" che prenderà forma e corpo compiuti dopo il fascismo - in "Metello", nel 1955 - era già presente, come a noi sembra, anche negli scritti "durante" il fascismo». Ed ecco la «bella domanda»: «È cioè un'altra persona quella che scrive "prima", rispetto a quella che scrive "dopo"? O è sempre la stessa, che parla - negli stessi sensi e negli stessi termini - degli stessi strati di popolo?». Ovvia la risposta che brutalmente suona così: questi intellettuali - e giustamente Pennacchi fa riferimento al saggio di Mirella Serri, «I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte» (Corbaccio, 2005), in cui si fanno i conti con le troppe amnesie dell'intellighentsia italiana formatasi tra le due guerre - nel fascismo ci credevano e continuarono a crederci fino al 1942 e anche fino al 1943, collaborando attivamente alle iniziative del Regime e pubblicando i loro articoli su una testata di rango come «Primato» (fondata da Giuseppe Bottai), «che fu non già la fucina d'antifascismo che qualcuno ha tentato di accreditare, ma fu piuttosto la punta avanzata della "cultura fascista" e, più drammaticamente, una delle punte più avanzate, in sede di teorizzazione e propaganda, del razzismo italiano contro gli ebrei». Chiamando ognuno alle responsabilità delle proprie scelte, dunque smascherando tutti quei «chierici» che divennero antifascisti allo scoccar del 25 luglio, ma non vollero mai ammetterlo, tirando fuori come scusante la «dissimulazione onesta» di chi stava «dentro» il Regime, ma non era fascista «dentro», Pennacchi, in buona sostanza, dice al «suo» Pratolini: caro Vasco, tu sei sempre rimasto lo stesso. Ma ti è mancato il coraggio di parlarne schiettamente con i «compagni» perché loro questa schiettezza non l'avrebbero accettata. Ed allora ti sei rifugiato nell'ambiguità. E in uno dei tuoi ultimi romanzi, «La costanza della ragione» (1963) hai messo in scena «due tuoi "alter ego", due tuoi "doppi": Benito-fascista e Bruno-comunista che alla fine convengono: "e scoprivamo di volere le medesime cose"». Vasco «fasciocomunista» il primo nella lista? Sicuramente ai «compagni» con la puzza borghese e radicalchic sotto il naso - Pennacchi ricorda Muscetta, Fortini, Calvino - «Metello» non piacque. Piacque ai giudici del «Viareggio», forse per l'eredità libertaria e fasciocomunista che si portavano dietro (negli anni Trenta il «Viareggio» aveva laureato due «sovversivi» come il viareggino Lorenzo Viani e il romano Marcello Gallian). Piacque - e piacerà anche «La costanza della ragione» - alle platee «nazionalpopolari»: lettori e spettatori. E oggi? Qual è l'Italia che può «riscoprire» Pratolini?

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