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di LORENZO TOZZI Nonostante la sua bellezza «Il Ratto dal Serraglio», opera tedesca di ambientazione turchesca, non gode in Italia la popolarità di altri gioielli mozartiani.

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All'Operadi Roma l'opera, con la sua caratteristica strumentazione mediorientale tornava dopo ben 40 anni di scena con una regia griffata, quella del britannico Graham Vick, mozartiano doc, che adagia la vicenda amorosa in un clima onirico e metafisico alla Magritte, segnato da uno squadrato cubo tuttofare che con le stelle in un manto blu o le bianche nuvole su sfondo celeste scandisce le notti e i giorni dell' azione. Tutto secondo una logica razionalista per cui ad ogni azione corrisponde una reazione distinta con logica geometrica, matematico-razionalistica. È la legge delle simmetrie, delle inversioni, delle logiche alfine contraddette dalla sorpresa dell'happy end inatteso ed insperato. La vivace regia, che disegna il coro turchesco dei giannizzeri ora come una teoria di pope russi ora come una accolita di mafiosi casalesi e lo fa scendere in sala tra il pòubblico, e predilige i colori bianco ed azzurro, contribuisce a rendere leggero il racconto drammatico e può contare sulla bravura anche attorale del cast vocale (il Singspiel richiede difatti sia la recitazione che il canto). Lodevole il cast vocale sia sul versante femminile (Maria Grazia Schiavo e Beate Ritter), che maschile (Charles Castronovo e Cosmin Ifrin) spesso alle prese con asperità di bravura, bronzeo l'Osmino di Hujpen, carismatico e scultoreo il Selim pascià, saggio e «philosophe», di Rodney Clarke, cui spetta stilare la morale finale. A dare verve alla già scintillante partitura del salisburghese c'era poi anche l'esperienza di Gabriele Ferro, da sempre ammaliato dal Settecento più raffnato. Applausi di stima e incoraggiamento per tutti.

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