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Vorrei la sveglia dei mammut

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Lo scrittore Antonio Pennacchi, vincitore del premio Strega con

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Pare che Antonio Pennacchi lo abbia scritto oggi, «Mammut». Per fare cagnara (una sua specialità) nell'universo operaio uscito fuori dal referendum che ha spaccato la Fiat. E che ha scontentato tutti: Fiom, Cisl-Uil, il «canadese» Marchionne. Invece il libro appena pubblicato da Mondadori Pennacchi lo ha scritto 25 anni fa. È il suo primo romanzo. Uscito dalla «stilografica comprata alla Standa», ricorda. Come nasce un bambino dalla pancia della madre. Dopo lunga gestazione nella fabbrica che è la scena del racconto e anche della vita di Pennacchi prima maniera, tuta blu. Perfetta maieutica. Un operaio diventato intellettuale che racconta una parte di mondo per quella che è, senza rovelli radical-chic. E impasta un lessico epico e familiare, una lingua maramalda che gronda sudore e furore. E infatti quasi lo chiama figlio, questo libro, lo scrittore esploso la scorsa estate con «Canale Mussolini», Premio Strega, finalista al Campiello. Ma fu un calvario, nel 1986, farsi pubblicare «Mammut». «Per otto anni ho bussato alla porta degli editori. Loro mi rispedivano il manoscritto e io glielo rimandavo - scrive Pennacchi nella nuova edizione - 55 rifiuti alla fine, da 33 editori diversi. Tutti quelli italiani, dai più grossi ai più piccoli». Alla fine, limando, condensando, «Mammut» piacque a Donzelli. Fu l'inizio della arcigna strada che ha portato l'ex metalmeccanico della Fulgorcavi di Latina, laureatosi poi in Lettere mentre era in cassa integrazione, a conquistare nel Ninfeo di Villa Giulia l'alloro letterario più ambito. Perché «Mammut»? Perché parla di una classe operaia in via di estinzione. Già 25 anni fa. Infatti il protagonista, Benassa, duro e puro capo sindacale a Borgo Piave - s'è fatto tutti i cortei, gli scioperi, i picchetti, pure l'occupazione della centrale nucleare di Latina - alla fine molla. Chissà, accetta dai padroni due anni di stipendio per togliersi di mezzo. Una ritirata in solitaria, la premonizione che il mondo operaio, fatto di solidarietà in fabbrica e di rissosità col padrone, sta cambiando. Stop rivoluzione. Piuttosto l'imborghesimento della classe operaia. Benassa cerca sì per il turno di notte il maglione con più buchi invece di quello ancora buono. Ma sul tavolino del salotto sistema, all'improvviso, «Quattroruote». A questa riedizione Pennacchi ha aggiunto una prefazione-manifesto. C'è la constatazione che il guaio degli operai è il sindacato spaccato. C'è l'orgoglio del lavoro. C'è la consapevolezza che l'altra parte può non essere il Male. Tra le dediche di «Mammut» s'intrufola quella «al vecchio Padrone, ragionier Aldo Dapelo. Con tutto l'affetto del senno di poi». Ma insomma, Pennacchi, che direbbe a Marchionne? «Che è un diavolo, ha spaccato gli operai. Quelli sono persone, mica bulloni. E dunque non si può stravincere, prima o poi la gente s'incazza». Ma ci sono ancora le tute blu che mangiano pane e Marx? Quelle di Silvia Avallone, la sua rivale allo Strega con «Acciaio», fanno il tifo per il Cav. «A Lombà, ci sono gli operai che dice lei, ma pure quelli che dico io. Ci sono gli arrabbiati e quelli che subiscono i contratti fregatura perché devono dare da mangiare alla famiglia. Una cosa non ti dimenticare. Che gli operai vogliono bene all'azienda e a quello che fanno. Sono uomini che trasformano la materia. Che da un lingotto tirano fuori un cellulare. Sono la prima ricchezza di una fabbrica. Se li sanno prendere».

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