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Preraffaelliti col tic dell'Italia

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diGABRIELE SIMONGINI Inglesi ma con l'Italia nel cuore e in punta di pennello, come un sogno inestinguibile. Parla due lingue la magnifica mostra che si inaugura oggi nelle sale della Galleria Nazionale d'Arte Moderna, a Valle Giulia: «Dante Gabriel Rossetti, Edward Burne-Jones e il mito dell'Italia nell'Inghilterra vittoriana», curata da Maria Teresa Benedetti, Stefania Frezzotti e Robert Upstone. È un viaggio appassionante nell'arte inglese del secondo Ottocento attraverso cento opere che però riflettono costantemente l'amore per il nostro Paese, per la sua arte, per la sua poesia, da Dante a Michelangelo, fonti privilegiate di una decisa ribellione contro l'Inghilterra vittoriana. Un'Italia sognata e vagheggiata come patria ideale dell'anima da colui che è il simbolo della mostra e della stessa confraternita dei Preraffaelliti, quel Dante Gabriel Rossetti che, pur essendo figlio di un patriota e poeta abruzzese (di Vasto) esule a Londra, non mise mai piede nel nostro paese. E così si entra nel vortice di un'arte piena di contraddizioni e proprio per questo quanto mai vitale, simbolista ma votata a rendere fedelmente la natura, nel crogiolo ardente che fonde poesia dantesca, «primitivi» italiani, Giorgione, Leonardo e Michelangelo, eredità romantica e sintomi decadentisti. Quanto mai felice appare la scelta di accostare alle opere di Rossetti, Burne-Jones, Morris, Watts e Leighton, i prototipi italiani che hanno marchiato a fuoco l'arte inglese del secondo Ottocento, da Giotto a Carpaccio, da Botticelli a Tiziano, Veronese e Tintoretto. Ne viene fuori un gioco di rispecchiamenti e reinvenzioni che spesso cancella la differenza secolare di epoche dimostrando che l'arte va al di là del tempo. E l'accesa passione per l'Italia da parte dei Preraffaelliti trova origine in tanti fenomeni diversi: dal fortissimo incremento in Inghilterra, fin da inizio Ottocento, di un collezionismo pubblico e privato di arte italiana ai formidabili scritti di Ruskin («Le pietre di Venezia» o «Mattinate fiorentine», ad esempio) e Swimburne, fino ai saggi di Walter Pater su Giorgione. Così in mostra si parte dai paesaggi di ispirazione italiana di William Turner che giunge a visioni evanescenti e già quasi astratte, esemplificate dal magnifico «Andando al ballo», in cui Venezia diventa un miraggio sospeso fra luce, cielo ed acqua. E imperdibili sono pure i disegni con cui Ruskin cerca di fermare l'inesauribile bellezza colta nei viaggi italiani, dalle opere del Beato Angelico alla tomba di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia. Ci fanno entrare nel pieno delle atmosfere preraffaellite le figure femminili dipinte da Rossetti, di volta in volta donne angelicate («L'amata») o creature perverse («Lucrezia Borgia») o dee dalla sensualità esibita e per quell'epoca imbarazzante, come la famosissima e sfrontata «Venus Verticordia» (1864-68), circondata da un esagerato trionfo di fiori. Da non perdere neppure i tanti capolavori di Burne-Jones, che attinge a piene mani da Mantegna, Botticelli, Piero di Cosimo e Michelangelo con una particolare cura del rigore compositivo: da «Il Tempio di Amore» a «Pan e Psiche», da «Perseo e le ninfe marine» al «San Giorgio». Ma l'opera più inquietante della mostra per la sua funerea allucinazione visionaria intrisa di un perturbante realismo è la scultura «Lamia» di George Frampton, in bronzo, avorio, opali e vetro, una sorta di terrificante e raggelata dea del sesso, del vampirismo e della morte.

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