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Ciao John: bella musica e brutta politica

John Lennon con Yoko Ono

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Era sera tardi, aveva finito da poco di lavorare e prima di rincasare, assieme alla moglie, sarebbe passato a salutare il figlio. Ma davanti al portone un ragazzo sconosciuto lo chiamò: «Signor Lennon!», poi il giovane puntò la pistola a tamburo, aggiunse: «Sta per entrare nella storia» ed esplose cinque colpi. Quattro andarono a segno. Trent'anni fa, l'8 dicembre 1980, John Lennon moriva a New York assassinato da un mitomane. Aveva quarant'anni, era uno degli uomini più ricchi e famosi del mondo. Era stato (senza nulla togliere all'amico Paul McCartney) la «mente» dei Beatles, il gruppo-simbolo della musica del Novecento. Oggi il suo mito musicale non è minimamente scalfito. Proprio l'altro giorno è uscito nei cinema italiani un film: «Nowhere Boy», di Sam Taylor Wood, che racconta gli anni dell'adolescenza di Lennon. Un anno fa sono stati ripubblicati tutti gli album in studio dei Beatles, rimasterizzati, e, esattamente come accadde nei '60, i titoli hanno monopolizzato le classifiche di tutto il mondo. Da pochissimo, digitalizzata, è tornata nei negozi di cd l'opera omnia di Lennon solista. Va a ruba. I pezzi dei Beatles sono sbarcati sul web. Dal 16 novembre è disponibile su iTunes l'intero catalogo del quartetto di Liverpool. Sono più di 450 mila gli album scaricati, per la cronaca il più richiesto è «Abbey Road», e due milioni i download di singoli brani, primo «Here Come the Sun», appunto da «Abbey Road». Cifre macroscopiche, da capogiro. Lennon e i Beatles sono giganti della musica del Novecento. Ma solo della musica. Di John Lennon, a trent'anni dalla morte e a quaranta dallo scioglimento del gruppo (il 30 dicembre), manca un pezzo: la politica. I Beatles rappresentarono una rivoluzione nella musica, ma anche (sembrava) del costume, della morale e della politica. Di questa «rivoluzione», oggi, non c'è più traccia. Anzi, parlarne negli ambienti della sinistra «I care» suscita nervosi risolini di imbarazzo. Da molti Lennon è stato considerato il «geniaccio» del gruppo, anche se i fan ancora si domandano perché si innamorò di Yoko Ono. Una cosa è sicura: Lennon era l'anticonformista, il trasgressivo. Alla platea del teatro dove festeggiava il titolo di baronetto disse: «In galleria potete applaudire, quelli in platea facciano tintinnare i gioielli». Come non ricordare una famosa intervista del '66: «Siamo più popolari di Gesù. E voglio vedere chi morirà per primo: il rock and roll o il Cristianesimo». Oggi certe sbrasate sono state dimenticate. Allora sembravano (a chi ci cadeva) il grido di battaglia delle avanguardie del progressismo mondiale. Che è venuto giù con il Muro di Berlino. Lennon fu un leader rosso, tanto che l'Fbi gli fece negare la cittadinanza americana. Fu vicinissimo a strambi movimenti radicali che disprezzavano il lusso nel quale lui navigava. Divenne una specie di feticcio della sinistra di mezzo mondo: riottoso, polemico, pacifista con appartamento nella snob 72esima strada di New York piaceva ai figli di papà che giocavano a fare i rivoluzionari. E di questo oggi cosa resta? Nulla. Disse bene il nichilista frontman dei Nirvana Kurt Cobain: «Lennon è il mio idolo, ma per quello che riguarda la rivoluzione ha torto marcio». Il povero John, morto ammazzato da un fan trent'anni fa, è e rimane un gigante della musica. Di politica, rivoluzioni, vodka, droga e sigari cubani più nessuno vuole sentir parlare.

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