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In un bel volume appena pubblicato dalla Fondazione Valerio, «All'ombra della corte.

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Ilterzo dei sedici saggi che vi sono raccolti ("Un'austriaca alla corte napoletana", della stessa Mafrici), è infatti un eccellente profilo della tanto vilipesa mogliettina di Ferdinando I di Borbone. E nel quarto ("Maria Carolina e la Colonia di San Leucio"), Nadia Verdile, tenace studiosa di quella che fu forse la creazione europea più affettuosa dell'èra del "dispotismo illuminato", torna a dimostrare che quel gioiello uscì proprio dalla testa di Maria Carolina. Non sembra irragionevole, del resto, supporre che quella vituperata regina sia stata un piccolo genio non soltanto per le idee riformatrici che coltivò nei suoi primi anni di regno, e che ebbero il loro esito più felice proprio nell'impresa sanleuciana, bensì anche per le ragioni per cui, dopo la messa a morte a Parigi di sua sorella Maria Antonietta, concepì di botto un immenso disprezzo per quei "giacobini" locali che aveva prima onorato della sua benevolenza e protezione. Fu quel disprezzo, si sa, a ispirarle quello che per lo snobismo storicista resta il suo massimo crimine: aver fortemente voluto, con l'ammiraglio Nelson - che aveva contribuito ad abbattere la Repubblica Partenopea perché vi aveva visto giustamente un primo indizio dell'espansionismo napoleonico - l'impiccagione dei "patrioti" di quel baraccone sostenuto da un'armata francese. Ma per quale oscura ragione degli storici disposti a giustificare qualunque atrocità di vago colore "progressista" trovano infami le esecuzioni che posero fine alle violenze attuate e promesse dai fantocci di quella Repubblica? I gusti, le idee e le passioni dei quali furono espressi splendidamente in un sonetto che la musa di quegli angioletti, Eleonora Fonseca Pimentel, rivolgendosi appunto alla regina (che l'aveva un tempo accolta a corte, offerto la direzione della biblioteca reale e persino invitata a declamare poesie per i genetliaci del re), dopo averle affibbiato gli appellativi di "rediviva Poppea" e "tribade impura", ossia di puttana e lesbica, le aveva promesso che presto anche la sua testa, come quella di sua sorella, sarebbe rotolata ai piedi della ghigliottina. Ecco la gentile poesiola: "Rediviva Poppea, tribade impura, | d'imbecille tiranno empia consorte, | stringi pur quanto vuoi nostra ritorta, | l'umanità calpesta e la natura. || Credi il soglio così premer sicura | e stringer lieto il ciuffo della sorte? | Folle! E non sai ch'entro in nube oscura | quanto compresso è il tuon scoppia più forte? || Al par di te mové guerra e tempesta | sul franco oppresso la tua infame suora | finché al suolo rotò la indegna testa... || E tu, chissà? Tardar ben può, ma l'ora | segreta è in ciel ed un sol filo arresta | la scure appesa sul tuo capo ancora!" Non sono, questi versi, uno strepitoso compendio di tutte le nobili passioni (risentimento, ingratitudine, invidia, ferocia sanguinaria, ipocrisia, grotteschi miraggi utopici, brama di potere, bacchettoneria) che si intrecciano nello spirito giacobino di tutti i tempi?

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