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Eterna transumanza

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diMARCO PATRICELLI Era una via che univa quando le strade non esistevano, tracciata dall'uomo e dal tempo sotto la spinta del caldo e del freddo. Una via che si illuminava a scadenze fisse quando il sole imbiondava «sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria» e il percorso si pennellava di polvere per il calpestio delle greggi dell'«erbal fiume silente». Si chiamava tratturo e appartiene a un mondo che non c'è più, di cui rimangono flebili ricordi storici, evidenti testimonianze visive e forti evocazioni letterarie. Pochi studenti italiani sono scampati alla lettura dei «Pastori» di Gabriele d'Annunzio, che consegnò il rito della transumanza alla poesia. Dalla Puglia all'Abruzzo nella stagione calda per la frescura dei monti, dall'Abruzzo alla Puglia all'alba dell'autunno, per il clima temperato del Tavoliere, in un rito ancestrale e necessario all'economia e alla sopravvivenza. Il tratturo era la via della lana, da ogni punto di vista. La pecora era una risorsa preziosissima, perché dava sostentamento con latte e formaggi, e calore grazie alla tosatura che forniva la materia prima per coperte e indumenti. Lo sapevano gli italici e i romani, lo sapevano nel Medio Evo, quando i traffici e gli scambi passavano attraverso una regione, l'Abruzzo, che di lì a poco avrebbe pagato un prezzo altissimo all'isolamento e sarebbe entrata nell'immaginario collettivo come un luogo irraggiungibile, così come ricorda la definizione che Boccaccio mette in bocca a Calandrino nel «Decamerone». Il «più là che Abruzzi» avrebbe segnato una cesura sociale, ma tratturi e transumanza sarebbero rimasti appiccicati alla regione come un marchio a fuoco. Chi ha i capelli bianchi non potrà non ricordare che quando la Rai trasmetteva «Intervallo» e nel televisore in bianco e nero scorrevano città d'arte e bellezze italiane, l'apparire dei pastori e delle pecore faceva immediatamente rima con Abruzzo. Come se tutto il resto non esistesse. C'era una storia, in quella fotografia che non lasciava neppure immaginare l'«Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti», secondo il verso dannunziano. Uomini e pecore, ma anche uomini e lupi, ferocemente su fronti opposti prima di un nuovo mondo e di un nuovo modo di intendere la natura e i suoi equilibri. Col transito libero in alcune epoche storiche, a pagamento in altre, con la disciplina del buonsenso o con quella di leggi e regolamenti, il fenomeno della transumanza ha resistito a guerre, invasioni, epidemie, carestie e persino all'emigrazione massiccia all'alba del '900 e nel secondo dopoguerra. I pastori, come i contadini, erano legati ai ritmi e ai capricci della natura. La loro vita era scandita dalle stagioni: c'era il tempo per vivere e il tempo per sopravvivere, quello della famiglia e quello dei bambini, quello della solitudine e quello della lotta contro gli elementi. I tratturi hanno resistito alle strade in asfalto ma non alla motorizzazione. Il rombo dei camion ha soffocato «isciacquìo, calpestìo, dolci romori» di dannunziana memoria. E non poteva essere altrimenti. La pastorizia "artigianale" è ormai appannaggio di giovani, sempre meno, provenienti dall'Illiria, dai Balcani, dall'Europa centromeridionale. I giovani dell'Abruzzo regione verde d'Europa sono anni luce lontani da un passato di rinunce e privazioni dietro a un gregge, a zufolare una canna per ingannare il tempo e la fatica, a intendersi con occhiate complici e fischi con i cani da pastore che sorvegliano i capi, a mungere e trasformare il latte in formaggio. Ancora nella seconda metà degli Anni '60, nella Pescara «della fuga in avanti» preconizzata da Pomilio, in quello che oggi è un tracciato ferroviario in centro e allora era collina con uliveto, era facile vedere scendere le greggi verso il mare. Il tratturo reale dall'Aquila a Foggia, il più lungo e importante con i suoi 244 chilometri di sviluppo, sta lì a ricordare qualcosa di più di una tradizione e qualcosa di meno di una storia. Che, comunque, va raccontata.

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