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I ragazzacci di via Panisperna

Enrico Fermi e gli scienziati dell'Istituto di Fisica  di via Panisperna

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Sono passati alla storia (e alla letteratura, e all'immaginario) come i ragazzi di via Panisperna. Nella strada romana si trovava infatti il Regio Istituto di Fisica dell'Università, e qui a metà degli anni Trenta, operarono in partecipe sodalizio Enrico Fermi, Bruno Pontecorvo, Franco Rasetti, Emilio Segré, Ettore Maiorana, Edoardo Amaldi. Già, cervelli esplosivi. È sin troppo ovvio dirlo visto che proprio a Roma, in via Panisperna, «scoppiò l'atomica» . Grazie a Fermi che scopre le proprietà dei neutroni lenti, arrivando ad ottenere quella fissione dell'uranio che aprirà la strada al primo reattore nucleare e alla terribile bomba che avrebbe deciso le sorti della Seconda Guerra Mondiale. Ma i ragazzi di via Panisperna sapevano, intuivano, prevedevano? È l'eterna domanda sulle «responsabilità della scienza»: interrogativo «vorticoso» ed ovviamente insoluto. E più che mai arduo quando gli scienziati sono, e sul serio, «anime belle» nelle quali all'ebbrezza che fa seguito agli straordinari esiti di una ricerca subito si accompagna il tormentoso dilemma: sarà un bene o sarà un male per l'umanità? La scienza che fa luce, la coscienza che subito scorge zone d'ombra. E c'è chi va avanti, comunque, e chi, invece, si ferma. In fondo, la storia dei ragazzi di via Panisperna è proprio questa: percorsi a approdi differenti, e una ricca provvista di inquietudini e contraddizioni da smaltire. Fermi nel 1938 è insignito del Nobel. Ma in Italia è entrata in vigore la legislazione razziale e la moglie è ebrea. Allora lo scienziato si trasferisce negli Usa, per insegnare alla Columbia University. In seguito, collaborerà con Robert Oppenheimer allo sviluppo della bomba atomica (progetto Manhattan). Se Fermi sceglie l'America, Bruno Pontecorvo, nel 1950, opterà per la Russia: la scienza alleata di un'ideologia totale e totalitaria nel mondo spaccato dalla «Guerra fredda». E con il Grande Fratello Stalin omaggiato da legioni di intellettuali. Anche Pontecorvo, al pari di Picasso, di Neruda, di Sartre, fu un comunista convinto. Del resto, non c'è da meravigliarsi perché artisti, letterati, filosofi (si pensi ad Heidegger e al suo «innamoramento» per Hitler) sono anche uomini appassionati, che spesso e volentieri si consacrano a una bandiera, facendosene alfieri. Fino a prova contraria e magari al di là di prove e riprove. Non fanno eccezione gli scienziati che abbiamo il torto ad immaginarci algidi ed aridi tra ipotesi, calcoli, esperimenti, quando invece dovremmo tener conto che i sentimenti, le inquietudini, le contraddizioni li «abitano» quanto noi. E certe volte li incalzano al punto che non c'è scienza che offra via di salvezza. Anzi: la scienza, la troppa scienza, quella stessa che induce in tentazione, facendoti balenare dinnanzi l'immagine del Superuomo che può manipolare se stesso e il mondo, può incrinarsi e generare insicurezza, paura, sgomento. Perché non sei Dio e non puoi prenderti le «responsabilità» di Dio. E allora? Ed eccoci al «caso Maiorana», un altro dei ragazzi di via Panisperna. Giovane genio della matematica pura, scompare in un «nulla» in cui letteratura e cinema hanno tentato più volte di scavare. Basti pensare a «La scomparsa di Maiorana», scritto da Leonardo Sciascia (Einaudi, 1975) e ad «I ragazzi di via Panisperna», diretto da Gianni Amelio (1988). Arrivato troppo avanti e angosciato da prospettive di morte e distruzione, il giovane genio della matematica disse no a chi (lo stesso Fermi?) avrebbe voluto che proseguisse, portando alle estreme conseguenze le sue ricerche? Maiorana fuggì, si nascose, cambiò volto, si uccise? O fu ucciso dal potere che avrebbe voluto asservirne il talento? Oppure si chiuse nelle più invalicabili lontananze? O trovò rifugio e pace nella vita claustrale, consacrando i suoi giorni a Dio e immergendosi nella contemplazione? Chissà. Le vie della scienza sono infinite. Come quelle della vita.  

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