Roberta Maresci Carmencita e il Caballero Misterioso sbarcano in Nord America.
Leiè sempre accanto al compagno Paulista: baffoni, sombrero, un cono di gesso bianco per corpo e cinturone con la pistola. Entrambi non hanno braccia né gambe, ma gli occhi fissi e il sorriso disegnato verso la quinta generazione dei Lavazza che ha appena acquistato il 7% del capitale ordinario della Green Mountain Coffee Roasters, azienda americana quotata al Nasdaq e attiva nel settore del caffé in cialde. Poco male se l'investimento potrebbe essere formalizzato nel mese di settembre, dopo l'approvazione prevista dalla normativa Hart-Scott-Rodino Antitrust Improvements Act del 1976. «Questa importante operazione - sottolinea l'azienda italiana il cui accordo vale 250 milioni di dollari - è la più grande mai realizzata dall'azienda all'estero e consolida la strategia di espansione del business internazionale di Lavazza, che negli ultimi quattro anni si è fortemente intensificato, acquisendo nuove società in alcuni Paesi emergenti tra i quali India, Brasile e Argentina». Fa nulla che nei sogni del popolo granata rimanga l'acquisto del Torino Calcio. Dopo più di un secolo di devozione al caffé, a marzo l'azienda era caduta nella tentazione del cioccolato; non quello svizzero di Jacobs o Nestlé ma degli italianissimi preparati della Ercom, leader domestico nella cioccolata calda in tazza, nei sorbetti e nelle creme fredde con i marchi Eraclea, Dulcimea e Whittington. D'altronde si sa, Lavazza è da sempre precursore di tendenze e foriera di modernità, italianità e percezioni positive. L'ultima si chiama Espoon, il cucchiaino forato dello chef Davide Oldani, studiato per sciogliere lo zucchero senza disperdere il calore e mantenendo intatta la crema del caffé. Torniamo a bomba: il caffé. Il marchio Lavazza è il caffé italiano. Capace di varcare i confini, di scoprire il nuovo mondo e di investire con la forza di chi è consapevole dei propri mezzi e della qualità del prodotto. E torniamo al marchio: conosciuto dal 99% degli italiani, 5 telespettatori su 100 non ricordano neanche uno dei 60 spot ambientati nel regno dei cieli dall'agenzia Armando Testa. Eppure sono stati centinaia i caffé serviti fra le nuvole da Tullio Solinghi, Paolo Bonolis e Luca Laurenti. In quindici anni, dietro la macchina da presa si sono avvicendati registi come Alessandro D'Alatri, Gabriele Salvatores e Umberto Riccioni, mantenendo intatta la metafora del Paradiso: luogo simbolo di piacere, perfezione e bontà. Ma come dimenticare Nino Manfredi che, dal 1977 al '93, personificò il marchio? Due gli slogan entrati nel linguaggio comune: "Il caffé è un piacere, se non è buono che piacere è?" e poi "Caffé Lavazza, più lo mandi giù e più ti tira su!". Ma negli archivi della food Valley del Piemonte c'è altro: dai pupazzi conici sono nate caffettiere, penne, portacaffé, tazzine e t-shirt. Che dire dei calendari aziendali che dal '93 portano la firma di fotografi come Helmut Newton, Albert Watson, Marino Parisotto, Elliott Erwitt e David LaChapelle? L'è tutto da rifare: la generazione che andava a letto dopo Carosello ricorda soprattutto il caffé Paulista e «Carmencita, amore mio chiudi il gas e vieni via». Faceva il paio con il lancio pubblicitario della lattina «sotto vuoto spinto», quella che «conquista» come affermava un altro fortunato slogan degli anni 60.
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