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Susu Cecchi D'Amico Ultimo ciak italiano

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Suso Cecchi D'amico

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L'amica più cara, l'amica di una vita. Avendola avuta al fianco, solidale ma spesso addirittura protettiva, nelle tappe più salienti, per oltre cinquant'anni, della mia vita pubblica (e anche privata). Sia in quei Settanta in cui, una prima volta, andai a dirigere la Mostra di Venezia, sia dopo, quando mi occupai, a Sorrento, degli Incontri Internazionali del Cinema, a Taormina del Festival delle Nazioni, a Spoleto, con Menotti, Visconti, Fellini, Zeffirelli, di Spoleto Cinema. Per arrivare a quel fraterno sodalizio, vissuto insieme fin al suo ultimo giorno, del David di Donatello dove, come Vice Presidente, non mi fece mai mancare appoggio e consiglio, con lucidità e impegno, equilibrio e forte capacità intellettale di parlare in nome di quegli autori di cinema che, grazie alla sua lunga carriera, rappresentava in mezzo a noi a pieno titolo. Suso. Susanna, come la chiamava Visconti - anche se il suo vero nome era Giovanna - dandole sempre, pur lavorando fraternamente insieme, un "lei" fra l'affettuoso, il rispettoso e il complice. L'avevo conosciuta durante la guerra, in casa d'Amico: era la moglie del celebre musicologo Fedele, detto Lele, nuora quindi di Silvio, il mio maestro ed era la figlia di Emilio Cecchi, uno dei miei miti letterari di allora (della sua splendida lingua italiana mi sono nutrito fin dagli esordi). Il cinema che, dal '46, con "Mio figlio professore" di Castellani, aveva cominciato a scrivere, me la fece presto conoscere anche dagli schemi. In seguito avrebbe collaborato con Luigi Zampa per "Vivere in pace" (le scrissi: hai inventato il "neorealismo rosa") e per "L'onorevole Angelina", il primo con Fabrizi il secondo con Anna Magnani. Quindi con Zavattini e De Sica per "Ladri di biciclette", facendo confluire più tardi il suo "neorealismo rosa", con il Blasetti, di "Peccato che sia una canaglia", nel celebre filone della commedia all'italiana nato proprio da lì, grazie a lei. C'era tutta Susi in quelle commedie, la sua ironia toscana che doveva poi trasmettere al Monicelli dei "Soliti ignoti" e dei "Picari", fino al sapientissimo "Speriamo che sia femmina", con quel gusto controllato che in tutta la sua carriera, pur in allegria, non doveva farle mai accettare concessioni al facile. E c'era sempre, anche nei momenti in sé più semplici, il suo rispetto per la cultura che aveva assorbito in famiglia (anche la mamma, Leonetta Pieraccini, dipingeva e scriveva e difatti Suso ne stava, da tempo, collezionando un diario che, se pubblicato per intero, avrebbe potuto far luce in modo splendido sulla vita artistica italiana fra le due guerre). L'ironia, ma anche un gusto colto e sicuro che doveva consentirle di partecipare con straordinaria vitalità creativa ai film più alti e difficili di Antonioni, dai "Vinti" alla "Signora senza camelie" e alle "Amiche", e a quelli di più saldo impegno di Rosi ("La sfida", "I magliari", "Salvatore Giuliano"). Per approdare, con Visconti, a quella che doveva essere la sua collaborazione più lunga e più feconda, tanto che adesso quei film, da "Bellissima" all'"Innocente", non mi riesce di attribuirli solo all'uno o solo all'altra (anche se lei, con umiltà generosa, citava spesso Jean-Claude Carrière per dire, con lui, che la sceneggiatura è il baco là dove la regia è la farfalla). Potei infatti leggere, anni fa, quel testo della "Montagna incantata", da Thomas Mann, che Suso aveva scritto per Luchino che non riuscì mai a realizzarlo: certo, una scrittura in comune, ma l'impronta di Suso, non ancora nascosta dalla regia, riusciva a farsi avanti con autorità felicissima. Esattamente come la si poteva individuare in "Morte a Venezia" - dove c'erano con lei, alla pari, Mann e Visconti - e in tutti quei film con predilezioni comuni, entrambi avevano creato ispirandosi a celebri testi letterari, da "Rocco e i suoi fratelli" al "Gattopardo", a "Vaghe stelle dell'Orsa" allo "Straniero". Con il corollario di quella sceneggiatura mai diventata film ma oggi gloriosamente esposta al Museo del Cinema di Parigi, che Suso, con Luchino trasse splendidamente dalla "Recherche du Temps Perdu" di Proust. Riscoprendo, alle spalle di certi autori e al momento di rappresentarli al cinema, altri autori e altri temi, con sensibilità congeniale (Dostoevskij, per esempio, nel Testori di "Rocco e i suoi fratelli", Cechov nel d'Annunzio dell'"Innocente" e più tardi, nel Cechov di "Oci Ciornie", con Michalkov, certi precisi itinerari di Gogol). E così, parallela a quella con Visconti, la collaborazione con Zeffirelli che si rifaceva a Shakespeare per "La bisbetica domata" e ai Fioretti e ai Vangeli per "Fratello Sole, Sorella Luna" e "Gesù di Nazareth". Letteratura e cultura, finezza e gusto: i regali di Suso a un cinema che ha saputo far grande. Anche quando la sua grandezza aveva di recente illuminato degli esordienti come i fratelli Andrea a Antonio Frazzi per "Il cielo cade" e Maurizio Sciarra per "La stanza dello scirocco". Oggi, al momento del commiato in lacrime, mi resta solo il conforto di essere stato, per Suso, la sua ultima occasione di mostrarsi in pubblico. Quando, lo scorso aprile, per i Cinquant'anni dei Premi David di Donatello, ho ottenuto che si consegnasse un David alla sua carriera di sceneggiatrice insieme ad altri che, a diverso titolo, erano state le personalità più significative del nostro cinema nella seconda metà del Novecento. Attorno a lei, nell'Auditorium di via della Concilazione, tutti i presenti, autori, interpreti, imprenditori, tecnici, si sono alzati in piedi per renderle omaggio. L'ultimo da viva. Da adesso per celebrarla glielo tributerà per sempre la storia del cinema italiano.

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