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L'affondamento dell'onore

La corazzata Roma

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Risuona ancora nella mia memoria (e nel cuore) la voce dell'annunciatore di Radio Roma che elencava i successi delle Forze Armate germaniche nell'appena trascorso settembre 1943: fra questi, ma senza particolare enfasi, veniva citato l'affondamento di una corazzata. Trascorsero alcuni secondi prima che io potessi «realizzare» che quella corazzata era la R. Nave «Roma», la più potente delle navi da battaglia italiane, affondata da bombardieri tedeschi al largo dell'isola dell'Asinara. Su 2021 uomini di equipaggio, 1393 trovarono la morte: fra questi, l'Ammiraglio Carlo Bergamini, comandante della flotta da battaglia. «Tutti a bordo!», un recente, denso volume pubblicato presso Mursia da due Ufficiali in servizio nella nostra Marina Militare, Patrizio Rapalino e Giuseppe Schivardi, ricostruisce, valendosi di uno sterminato materiale documentario, il dramma vissuto dai «Marinai d'Italia l'8 settembre 1943 tra etica e ragion di stato» (così recita il sottotitolo dell'opera), dramma del quale l'affondamento della «Roma» rappresenta l'episodio assurto giustamente a simbolo del sacrificio della Marina italiana nelle tragiche giornate della nostra storia succedute alla proclamazione, la sera dell'8 settembre 1943, dell'armistizio fra l'Italia e le potenze alleate che si accingevano, conquistata la Sicilia, all'invasione della penisola. La descrizione degli avvenimenti che portarono alla cessazione da parte italiana della lotta è preceduta nell'opera da una serie di capitoli che, da una parte, attraverso un esame dei valori morali sui quali le diverse marine da guerra fondano la formazione dei loro equipaggi, illustrano il significato del senso dell'onore coltivato e custodito nelle diverse generazioni di uomini destinati alla guerra sul mare; dall'altra, ricostruiscono la politica navale italiana fin dalla conclusione del Risorgimento, soffermandosi in particolare sul potenziamento della nostra flotta voluto e realizzato dal Governo fascista, in vista di un probabile confronto in guerra con le Marine della Francia e dell'Inghilterra.   L'8 settembre 1943 il senso dell'onore, il cemento spirituale che fin dagli anni dell'Accademia aveva fatto dei futuri comandanti delle navi da guerra italiane i custodi gelosi della «principale delle virtù militari», entrò in drammatico conflitto con la ragione di stato quando fu necessario dare applicazione alle feroci clausole armistiziali relative alla sorte della nostra flotta: quelle navi che avevano tante volte conteso al nemico il dominio dei mari e degli oceani, dovevano consegnarsi agli Anglo-Americani, andando incontro a un oscuro, doloroso destino di disarmo e di obbedienza a umilianti condizioni di cattività. In effetti, fin da quando, agli inizi del 1941, gli ambienti diplomatici e militari inglesi cominciarono a considerare l'eventualità di un distacco dell'Italia dalla Germania, trovando rispondenza nell'opinione di gruppi politici e militari italiani convinti dell'impossibilità di una conclusione vittoriosa della guerra, la flotta italiana aveva avuto un ruolo di primo piano nelle trattative come il più prezioso bottino per gli Alleati e il pegno più consistente che l'Italia doveva pagare alla sua resa incondizionata. L'intreccio di iniziative individuali e di segrete trattative ufficiali che portarono all'8 settembre è ricostruito dagli Autori anche sulla base di ricerche da loro compiute negli archivi inglesi e americani: la condotta stessa strategica delle operazioni navali nel Mediterraneo, in particolare per quel che riguardò le nostre forze da battaglia, fu spesso condizionata dalla necessità di non esporre alla preponderanza del nemico e alla sua supremazia aerea quella che sarebbe stata per gli Alleati la più ambita delle prede.   Il dramma degli alti gradi della nostra Marina, esclusi dalle trattative armistiziali e messi di fronte alle clausole, ormai sottoscritte, che imponevano la consegna della flotta da guerra in porti controllati dal nemico, è descritto dagli Autori in pagine nelle quali giganteggia la figura dell'Ammiraglio Bergamini, dell'uomo che aveva preparato gli scafi e gli uomini al suo comando ad uno scontro decisivo con le flotte Anglo-Americane che avrebbero appoggiato lo sbarco nella penisola delle truppe Alleate. Fu solo per obbedire agli ordini del Re che Bergamini salpò da La Spezia alla testa delle forze da battaglia alle 02.00 del 9 settembre, incontro al suo destino: così, l'obbedienza agli ordini del Re ispirò il comportamento, in quei tragici giorni, della maggior parte dei marinai italiani, ma quanto essi fossero ispirati da uno spietato ossequio alla ragione di stato, e quanto confliggessero con le regole dell'onore fu ben presto chiaro a «molti di questi uomini» che, «come Fecia di Cossato, ritenevano di aver rinunciato al proprio onore per il Re. Dopo poche ore dall'armistizio, avevano rivolto le armi contro gli ex camerati. Ora i nuovi alleati li trattavano come dei vinti e avrebbero voluto impiegarli come manovalanza». Il comandante Fecia di Cossato si tolse la vita a Napoli, desiderando raggiungere i marinai del sommergibile «Tazzoli», da lui gloriosamente comandato, scomparsi combattendo nelle acque dell'Atlantico.

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