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Giggi core de Roma

Lo scrittore Zanazzo

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«Da la loggetta/ di casa mia m'affaccio / e guardo in giù / vedo la strada / vedo la piazzetta». Occhieggia dall'alto Giggi Zanazzo, i baffoni e il cappello tirato indietro, spavaldo anche nel monumento che lo ricorda ma che pochi guardano. Via dei Delfini 5, tra Botteghe Oscure e il Campidoglio, a un tiro di schioppo dalla chiesetta di Santa Caterina dei Funari. Abitava qui il poeta-giornalista che mise in versi il romanesco verace. Fu questo cronista smaliziato e sornione a infilare per primo nella poesia quelle parole con una erre sola, come «téra» al posto di terra. Zanazzo, nato nel 1860, da famiglia veneta ed ebrea, morto presto, nel 1911, avrebbe tutti i numeri per sgomitare accanto a Gioachino Belli e a Trilussa, al quale fece da maestro. Disegnò con le parole - come Roesler Franz con il pennello - Roma appena diventata Capitale. Senza gli intrighi di Papa Re, che portavano però un po' di manna ai poveracci («É mejo che la panza mia crepi, che la grazia de Dio se sprechi», il proverbio coniato da Giggi) ma con altri imbrogli. Quelli degli «invasori» Piemontesi, schifati da popolino e nobiltà nera. E però Zanazzo non ha avuto i riflettori addosso. La Capitale gli ha dedicato una strada in Trastevere, che è proprio quella dove sta «Il Puff» dell'emulo «cantattore» Lando Fiorini. E poi il monumentino sull'edificio ora cadente di via dei Delfini, in Campitelli. Ma rievocazioni, pubblicazioni, studi pochi. Come la fama. Adesso che arriva il doppio anniversario - 150 anni della nascita e centenario della morte - il Comune si dà da fare. Un comitato pubblicherà l'opera omnia del Nostro, nelle scuole si lancerà un concorso per diffondere le sue favole, rigorosamente in romanesco. Insomma, il Campidoglio difende la propria tradizione, mica solo i lumbard dissotterrano lo spadone per tutelare il loro dialetto. E Zanazzo ci sta come il cacio sui maccheroni. È vero che la famiglia era del Nord, ma lui, diplomato ragioniere al Collegio Poli, capì d'avere il buzzo buono per tutt'altro che i conti. La lingua, la città e la sue tradizioni erano il pallino. Girava nelle osterie a raccogliere parole, abitudini, proverbi, giochi. Fondò giornali in dialetto, «Il Rugantin», il «Casandrino». Si firmava celiando «Adorfo», «Miodine» «Abbate Luviggi», come una delle statue parlanti. Divenne bibliotecario al ministero della Pubblica Istruzione, ma subì l'epurazione della «Minerva». Forse fu proprio questa «misticanza» di scrittura - le cronache, i saggi, i versi, le favole - a scalfire la sua figura di letterato puro. Lui avrebbe fatto spallucce. Contento di dedicare una sua pagina a fissare una volta per tutte le regole della «passatella», il divertimento più diffuso nelle fraschette e all'osteria, pure se, onesto, il Nostro avvertiva che veniva da altrove, forse dai tramontani e che insomma, era diffuso in tutta Italia.   «'Sto ggioco consiste ner pagà tant'a ttesta 'na certa quantità dde vino, fra tutti li ggiocatori, e ddoppo de fa' la conta. A quello che je va la conta sceje er Padrone e er Sotto che sso' accusì detti Regnanti. Er Padrone se po bbeve, si je capacita, tutt'er vino; er Sotto, quann'er Padrone vo' ddispensà le bevute all'antri, le po' ddà a cchi vvo' llui, oppuramente bbévesele lui...». A teatro disse la sua. Aveva sposato un'attrice della Compagnia Romanesca, Agnese Bianchini, di scena al Rossini. Ed ecco allora le commedie di Giggi. «Pippetto ha fatto sega a scola» battezzò la maschera del tipo azzimato, vanitoso e cretino. Un tappo spaccamonti, insomma. E se il soprannome di Vittorio Emanuele III fu appunto «Pippetto», la colpa è di quel satananasso di Giggi, che pure politicamente pendeva per l'autoritario Crispi. La vocazione del cantastorie la assecondò con le favole. Come quella di Belsole e Belmiele, fratello e sorella bellissimi. Lui va paggio dal re, lei rimane con la nutrice. Ma quando il re vuole conoscerla e sposarla, la matrigna invia a corte la figlia scorfana e spinge Belmiele in mare. Se la mangia una balena, finché Belsole non la ritrova sulla riva, spezza le catene che la imprigionano e la conduce dal sovrano, mentre le due megere finiscono sulla pubblica piazza, coperte di pesce puzzolente e giustiziate. La fantasia poi sa cedere il passo all'unghiata, come quando se le ride della nuova «avula» parlamentare dopo il magna magna della Banca Romana. O al gusto di disegnare altre macchiette, i quattro mejo fichi der Bigonzo, ciascuno di un rione. Quello di Regola fa «er conciapelle»; quello di Trastevere «er carrettiere a vino», quello di Monti sa «lavorà de sfrizzolo». La ribalta ci vivrà di rendita, con questi personaggi. E con una lingua densa di umori saggi e sanguigni. Altro che le parolacce in tv.

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