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La data di ieri è quella che gli Antichi, annoverandola tra quelle "nefaste", definivano con l'espressione dies alliensis, "il giorno dell'Allia".

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Marche.Le fonti storiche non ci danno elementi sufficienti per determinare con assolua certezza, oltre il mese e il giorno, l'anno esatto di quell'avvenimento. Ma gli studiosi sono per la maggior parte propensi ad indicare il 390 a.C. Oggi, pertanto, siamo alla ricorrenza del 24° centenario, che non è, tuttavia, solo quello della battaglia dell'Allia, ma anche quello dell'evento ben più grave che ne fu conseguenza: il "sacco di Roma" - o "incendio gallico", come fu chiamato - il cui ricordo rimase indelebile nella memoria collettiva. Almeno, fino al 410 d.C., quando, ottocento anni dopo, Roma fu nuovamente invasa e saccheggiata da orde barbariche: quelle dei Visigoti di Alarico (un altro centenario di quest'anno, stavolta il 16°, che cadrà il prossimo 24 agosto, mentre lo scorso 15 giugno è stato il 1555° anno del sacco dei Vandali, nell'anno 455). Della battaglia dell'Allia ci riferiscono gli storici Diodoro Siculo, Livio e Plutarco. La sua esatta localizzazione è legata al piccolo corso d'acqua che le dette il nome e che viene ormai pressoché concordemente riconosciuto nel Fosso della Bettina (o, della Regina) che, poco prima del km 20 della via Salaria, scende dalle colline della Marcigliana (i Crustumini montes, dove si trovava la "città" di Crustumerium) per andarsi a gettare nel Tevere dopo aver attraversato il breve tratto di pianura col nome di Fosso Maestro (o della Marcigliana). A quel che pare, i Romani avrebbero tentato di sbarrare il passaggio dei Galli appoggiandosi alle colline e affrontando il nemico nella "strettoia" tra queste e il Tevere. Ma non si trattò delle .... "termopili". Di gran lunga inferiori per numero e con un esercito raccolto in fretta, con uomini per la maggior parte alle prime armi, i Romani furono rapidamente travolti. Livio - che se la prende anche coi capi, colpevoli di non aver unificato il comando, di aver agito con grande leggerezza e, soprattutto, di avere trascurato di conoscere le indicazioni degli dèi - scrive (V, 38) che essi si dettero alla fuga "non solo senza aver tentato il combattimento, ma nemmeno levato il grido di guerra". E fu il massacro, specialmente nell'ala sinistra, dove molti, "inesperti del nuoto o privi di forze, appesantiti dalle corazze e dagli altri armamenti", finirono nei gorghi del Tevere. Quelli dell'ala destra, invece, s'arrampicarono sulle colline o si dispersero per i campi. Molti si diressero verso Veio, o tentarono di riprendere la via per Roma. Molti altri trovarono rifugio in un bosco dei paraggi,"grande e tenebroso", dove in seguito, il 19 e il 21 luglio d'ogni anno, si celebravano i riti dei Lucaria, in ricordo della salvezza che quel bosco (lucus) aveva assicurata agli scampati. Quanto ai Galli, "sorpresi per quella repentina vittoria", si trovarono la via libera per Roma che raggiunsero, secondo Livio (V, 39-41), la sera stessa della battaglia (ma accampandosi fuori le mura), secondo gli altri storici, tre giorni dopo. La città era stata precipitosamente abbandonata e gli invasori l'occuparono, senza incontrare alcuna resistenza, entrando dalla Porta Collina, sul Quirinale, "che trovarono aperta". Quindi si dettero al saccheggio "correndo qua e là a far bottino, per le vie completamente deserte ...". Livio attribuisce alle distruzioni dell'"incendio gallico" la perdita dei documenti sulla più antica storia di Roma e, quindi, le lacune, le incertezze, le confusioni, le invenzioni degli storici. Ma non è che i racconti, suoi e degli altri, a proposito di quell'episodio, siano chiari, univoci e privi di contraddizioni e di leggende. Con queste, anzi, la tradizione cercò di mascherare i fatti più disdicevoli e imbarazzanti, al fine di ... indorare la pillola, e magari stravolgendoli fino a farli diventare edificanti ed esemplari. Così, è arduo districarsi tra quei racconti che vanno dalla fuga delle famiglie plebee verso le alture gianicolensi alla strenua difesa della rocca capitolina (salvata da un attacco notturno dei Galli dallo starnazzare delle oche chiuse nel recinto sacro a Giunone), dal rifugio offerto alle Vestali e ai sacra del Popolo Romano dalla città amica di Cere all'orgoglioso rimanere di magistrati e senatori nelle rispettive sedi, incuranti delle offese dei barbari. Fino al riscatto in oro preteso dai Galli, col loro capo, Brenno, che alle proteste per i pesi truccati, dopo aver gettato la sua spada sulla bilancia, risponde con la celebre frase "guai ai vinti", e all'improvviso sopraggiungere di Camillo, alla testa delle sue truppe, al grido dell'altrettanto celebre frase "col ferro, non con l'oro, si riscatta Roma". In realtà, si trattò di un sia pur momentaneo "cedimento" di Roma, forse coinvolta in vicende di ben più ampi orizzonti quali quelle legate alla politica espansionistica del signore di Siracusa, Dionigi, ai danni degli Etruschi e, in particolare, di Cere contro la quale (e contro la sua alleata Roma) egli avrebbe stipulato un'intesa coi Galli che, all'inizio, di loro iniziativa avevano puntato, per esserne respinti, all'altra potente città etrusca di Chiusi. Ma questa è storia che ci porterebbe troppo lontano. Si può concludere ricordando che i Romani, la sconfitta dell'Allia e il "sacco" della città se li legarono al dito. A prescindere dal timore che l'episodio potesse ripetersi: il famoso metus gallicus ("la paura dei Galli") rimasto lungamente vivo, alimentato come fu, fino oltre la metà del III secolo a. C., dal rinnovarsi delle minacce, sempre peraltro vittoriosamente sventate. Alla fine si vendicarono alla grande. Non solo, infatti, sottomisero i territori italici dai quali provenivano le incursioni e, più in generale, tutte le regioni dell'Italia centrosettentrionale nelle quali i Galli invasori s'erano insediati. Ma conquistarono buona parte dell'intero mondo celtico, dalla penisola iberica a quella anatolica, dall'Inghilterra alla Slovenia, rimanendovi per secoli e trasferendovi costumi, lingua e monumenti.

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