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Sbarco in Sicilia fatale per civili e carabinieri

Il generale americano Patton

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{{IMG_SX}}Gela ai tempi dello sbarco alleato del luglio 1943 era una cittadina di circa 30.000 abitanti e faceva parte di una catena di piccoli centri abitati rivieraschi o prossimi al mare(...). La notte tra il 9 e il 10 luglio sbarcarono sulla spiaggia della cittadina due battaglioni di Ranger americani, fiancheggiati da un analogo reparto di genieri d'assalto e da tre compagnie di mortaisti con 36 armi molto particolari da 107mm; tutti questi reparti erano al comando del Tenente Colonnello William O. Darby (...). Verso le prime luci dell'alba, genieri e Ranger avevano debellato con qualche difficoltà la totalità delle difese fisse che controllavano gli ingressi del paese; al Bastione Medievale si era combattuto all'arma bianca; l'ultimo a cadere fu il bunker di Porta Marina in cui fu ucciso a pugnalate, probabilmente da un paracadutista dell'82a Divisione statunitense, il Caporalmaggiore Cesare Pellegrini(...). Fu in questa fase che i militari americani, in base a una sindrome comportamentale da noi ben analizzata nell'intervento su questa rivista relativo alla strage di Vittoria del 10 luglio 1943, si dettero a uccisioni indiscriminate a danno della popolazione civile(...). Il milite, allorché la postazione fu circondata dai paracadutisti statunitensi, reagì a fucilate e bombe a mano dando il tempo ai suoi camerati di svegliarsi e di prendere le armi mettendo per il momento in fuga il nemico. Faraci fu trovato decapitato a seicento metri dal posto di avvistamento; la testa raggiunse il resto del corpo dopo 12 giorni di ricerca da parte dei familiari(...). Verso le sette di mattina del 10 luglio, i Carabinieri, frastornati per gli scoppi, per i fasci dei proiettori, i traccianti, i paracadute che avevano visto scendere per l'intera notte da tutte le parti, furono circondati da soldati americani; colti di sorpresa e consapevoli del rapido peggioramento della situazione delle difese italiane, si arresero senza opporre resistenza. Furono disarmati e fatti distendere a terra per essere perquisiti e rapinati di tutto quello che avevano, dagli orologi alle penne stilografiche, ai borsellini, agli anelli; poi furono fatti appoggiare ad un muro con le mani sulla testa e fucilati, senza preavviso, alle spalle (...). Una donna di vent'anni, Carmela Ferrara in Rodinò, con i suoi due bambini, Grazio di tre anni e Lucia di un anno in braccio, venne fuori da casa sua in Via Cappuccini Caricatore, di fronte all'abitazione dei Mondarini, correndo, evidentemente spaventata dal bombardamento e dai rumori di spari. Voleva raggiungere i parenti, ma all'incrocio tra Via Cappuccini Caricatore e Via Bevilacqua, incontrò un gruppo di americani e si mise a urlare per il terrore; fu fulminata da una raffica che fece fuori lei e i suoi piccoli. Il fratello Emanuele, che allora aveva una decina di anni, visse tutta la vita con il ricordo struggente della sorella e dei nipotini (...). Quello che è avvenuto a Gela e a Vittoria, come documentato anche nel mio intervento citato su questa rivista, costituì per gli statunitensi uno standard sino alla fine della guerra in Europa e riguardò anche il fronte dell'estremo oriente (Pacific Theater of Operations), dove alle violenze inaudite consumate dai giapponesi e dai loro alleati orientali, si oppose l'uccisione sistematica o quasi dei pochi militari delle forze nipponiche (in genere lavoratori militarizzati coreani) che si erano arresi; anche le popolazioni di origine giapponese furono assoggettate a trattamenti inumani e molto condizionati da pregiudizi razziali.

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