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Wojtyla, il papa del dolore

Papa Giovanni Paolo II

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È il 16 ottobre del 1978. Hanno già annunciato il nome del nuovo papa: è proprio lui, Karol Wojtyla! Si affaccia dal balcone della basilica vaticana. È emozionato, commosso, ma conquista subito tutti: «Se mi sbaglio, mi corigerete…». La domenica dopo c'è la Messa per l'inizio ufficiale del pontificato. Giovanni Paolo II alza gli occhi dal testo scritto, e ripete con forza: «Aprite le porte a Cristo! non abbiate paura!». (...) Cambia lo scenario, siamo a Varsavia: la gioia si tramuta in lacrime, lacrime di commozione ma anche di orgoglio. La gente infiora le strade al passaggio di Karol Wojtyla. E comincia da lì, da quella visita, lo sgretolamento del muro. I colombi puntano verso il cielo, spaventati da quei due colpi di pistola in piazza San pietro. Sulla jeep che lo trascina via, ferito gravemente, Giovanni Paolo II ha gli occhi chiusi, ma l'espressione del viso è serena, quasi dolce, come quella di chi sa di aver messo la sua vita in buone "mani". Ed è poi quasi uno shock vederlo in pigiama – un papa in pigiama! – nella sua stanza all'ospedale. Per la prima volta un capo della Chiesa Cattolica entra in una sinagoga; poi entrerà in un tempio buddista, e perfino in una moschea. Ad Assisi, a pregare per la pace, ci sono tutte le religioni. E intanto i viaggi portano il papa a conoscere i luoghi della disumanità, come Hiroshima, come Gorée, l'isola degli schiavi, e i luoghi dove ancora dominano povertà e ingiustizie, in America Latina, in Africa, in Asia. Karol fa il girotondo con dei bambini australiani. Karol abbraccia delle ragazze malgasce. È sommerso dall'entusiasmo di una marea di giovani nelle Filippine, per una delle Giornate mondiali della Gioventù. Karol accompagna i canti facendo roteare il bastone, forse anche per dire che non ne ha bisogno, che può farne a meno; e invece è il primo segno dei mali che, uno dopo l'altro, lo assaliranno. I suoi occhi non riescono più a sorridere. Fa una fatica immane ad aprire la Porta Santa per il Giubileo del Duemila. E si arriva alle ultime penose settimane, all'ultima Pasqua, con quella drammatica smorfia che, più che di dolore, è di impotenza. E poi, la fine. Quel catafalco in San Pietro che suscita così tanta tristezza, tanta nostalgia, e il volto di Karol che non sembra più nemmeno il suo. In queste immagini, tra le mille altre che si potrebbero scegliere, scorre come in un film la trama della vita di Karol Wojtyla. È il racconto visivo di un percorso umano e spirituale che ha dello straordinario. Ma è anche accompagnato, con una continuità impressionante, dalla sofferenza, dalla croce. Fin da bambino, da ragazzo, Karol aveva conosciuto la povertà, la guerra; aveva perduto tutti i suoi famigliari e molti amici; aveva sperimentato sulla sua pelle la malvagità umana, quella del nazismo e quella del comunismo. Aveva solo 58 anni, quando era stato eletto pontefice. Era giovane, atletico, vigoroso, sicuro di sé. Tornava da viaggi lunghissimi, faticosi, e non sembrava mai stanco. «Il Papa globetrotter», scrivevano i giornali. Ma ecco la violenza irrompere nel "cuore" del cristianesimo, e dimostrare come anche un grande personaggio religioso, che pure predicava la pace, fosse vulnerabile, e potesse venir colpito, ucciso, al pari di qualsiasi altro uomo. Lui si salvò, miracolosamente. Riprese a viaggiare, a compiere la sua missione alla guida della chiesa universale. Ma il suo calvario era solo all'inizio. Cominciarono i guai fisici, le malattie, il morbo di Parkinson. E, a quel punto, cominciò anche la "metamorfosi" del suo corpo. Perché fu il corpo, con il progressivo decadimento, a "portare" all'esterno la sua sofferenza. Come del resto capita, con l'invecchiamento, o a causa di qualche male degenerativo, a tanti altri esseri umani. Ma che nel suo caso, nel caso di un papa, e per di più di un papa che girava il mondo, e che era costantemente sotto milioni di occhi, provocò un'angoscia collettiva. La gente ammirava il suo indomito coraggio, ma provava una gran pena a vederlo così, impedito di camminare. Impedito perfino di parlare! (...) Era come se Karol Wojtyla fosse "predestinato" alla sofferenza, per dimostrarne il valore salvifico, il posto che essa ha nella vita di ogni uomo. E infatti, proprio nei momenti più tormentosi, quando il corpo denunciava tutta la precarietà, tutta la fragilità del suo stato, lui sembrava trovare dentro di sé la forza per sopportare quel lungo estenuante martirio. Era la forza del Vangelo, che si manifestava nella debolezza di quel testimone, di quell'uomo che per l'intera esistenza era "vissuto" di Dio.

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