Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

A distanza di quasi sei anni, voglio rammentare il curioso destino del «Sangue dei vinti» e del suo maledetto autore.

default_image

  • a
  • a
  • a

(...).Si cominciò col dire che la pubblicazione del «Sangue dei vinti» era inopportuna, a causa del momento politico. Nell'autunno del 2003 stava al governo il centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi. Due anni prima, il Cavaliere aveva vinto le elezioni grazie all'alleanza con i postfascisti di Alleanza nazionale e la Lega. Ma soprattutto in virtù del disastro combinato dal centrosinistra che nel quinquennio precedente aveva espresso ben cinque governi, uno peggiore dell'altro. Nella mia replica a questa prima obiezione mi limitai a domandare: chi stabilisce l'opportunità di un libro? Un nuovo ministero della Cultura popolare, a somiglianza di quello mussoliniano? (...). Poi entrò in scena Aldo Aniasi, un politico in disarmo, già sindaco socialista di Milano e, prima ancora, comandante partigiano. Senza aver letto «Il sangue dei vinti», sentenziò sui giornali che ero un falsario. Ovvero che avevo scritto un libro bugiardo. Gli replicai come meritava. Mettendo a confronto quel che andava dicendo con ciò che aveva scritto anni prima in una biografia di Ferruccio Parri. In un paio di pagine aveva rievocato, sia pure con parole molto generiche, il terrore della resa dei conti contro i fascisti sconfitti. (...). Del resto, l'accusa di aver raccontato bugie veniva smontata dall'accusa su cui tra poco ritornerò: di aver narrato faccende già note e rievocate da altri autori. Se erano cose risapute, come potevano essere false? A quel punto mi fu rimproverato di non aver citato le fonti che avevo utilizzato. L'accusa mi venne rivolta soprattutto da storici accademici. Ossia da baroni, baronetti e baronini che insegnano Storia contemporanea nelle università italiane. Personaggi diversi fra loro, ma tutti schierati a sinistra. Uno di costoro, lasciando l'accademia, diventò poi deputato dei Comunisti italiani. Ma anche il nuovo rilievo era infondato. Tutte le mie fonti le indicavo nel testo. (...). Non contento, qualche altro storico di mestiere, sempre inzuppato nel sinistrismo plumbeo, mi contestò di aver usato soltanto fonti fasciste. Non era vero per quel che riguarda il "soltanto". Mentre lo era nel senso che avevo adoperato anche quelle. Allo stesso modo, avevo usato molte fonti antifasciste. (...). Infine emerse l'accusa più banale: Pansa ha raccontato storie risapute. Fu questa la tesi di un lungo intervento di Mario Pirani, stampato sul paginone culturale di "Repubblica". Il titolo diceva: "Molti hanno discusso Il sangue dei vinti come se le vendette partigiane fossero un assoluto inedito. Quando si perde la memoria". Ovvero quando si presentano come novità delle vicende che nuove non sono. Anche in questo caso, avevo da addurre prove a contrario. La più ovvia era il successo del «Sangue dei vinti»: copie vendute per qualche centinaia di migliaia, una vittoria editoriale che dura ancora oggi. Se tutto fosse stato già conosciuto, poteva accadere ciò che accadde a quel libro? Credo di no. Il mercato, di cui tanto parliamo, si sarebbe dimostrato ben più avaro. O avrebbe respinto in blocco il mio lavoro. La verità era un'altra. Nel «Sangue dei vinti» avevo dissepolto storie note a una cerchia ristretta di opinione pubblica (...). Infine mi arrivarono due accuse della disperazione. Le ho chiamate così perché a dettarle era il tentativo estremo, appunto da disperati, di boicottare «Il sangue dei vinti». La prima viene ripetuta ancora oggi con un'insistenza diventata grottesca. Ed è che non avevo descritto il contesto della resa dei conti. Ossia quel che era accaduto durante la guerra civile. A cominciare dalle stragi compiute dai tedeschi con l'aiuto dei fascisti. Dove era stato versato, con un'immagine coniata in un Istituto della Resistenza, "il sangue dei vincitori". L'accusa rivelava l'ignoranza totale dei detrattori a proposito del mio lavoro. Quando si aggredisce l'autore di un libro, un minimo di furbizia impone che si conosca quello che ha scritto in precedenza. (...). Si sostiene sempre che la sinistra sia più colta della destra, legga di più, conosca più cose. Ma non è affatto così. Chi mi chiedeva, e mi chiede, di raccontare il famoso "contesto", non sapeva e non sa che l'avevo già fatto, a partire da tanti anni prima e in più di un libro dedicato alla Resistenza. (...). L'ultima accusa era la più infantile. Anche se arrivava da personaggi con i capelli bianchi come i miei e spesso ben più dei miei. Ho sempre avuto rispetto per gli anziani, tanto più oggi che sono approdato anch'io alla terza età. Ma quale rispetto posso avere per i soci dell'Anpi? E soprattutto per i vertici di questo club? Fin dal primo giorno, anche loro senza aver letto il libro, sostennero che «Il sangue dei vinti» era un romanzo. Tutta robaccia inventata, dalla prima pagina all'ultima. Da un autore disinvolto, in cerca di buoni diritti d'autore. (...). Dopo «Il sangue dei vinti» le sinistre mi hanno messo al bando. E hanno continuato a farlo ancora di più dopo i miei libri successivi. Come dicono gli avvocati penalisti, ero un recidivo reiterato specifico. Ossia commettevo di continuo lo stesso tipo di reato: il revisionismo. Dunque il bando doveva essere sempre più ferreo. Non sto parlando soltanto delle sinistre radicali o regressiste, le frange lunatiche del sistema postcomunista italiano. Parlo anche di quelle che si definiscono riformiste, a cominciare dai Ds, poi confluiti nella disordinata parrocchia del Partito democratico. Ho appena descritto i loro leader senza coraggio. Però anche il loro seguito ha mostrato di non averne per niente. E non intendo i compagni della base: questi li assolvo perché sono cresciuti mangiando le bugie che gli venivano servite come verità. Intendo gli eccellenti a vario titolo: intellettuali, direttori di giornali, opinionisti, docenti universitari, editori, burocrati della Rai, organizzatori di eventi culturali. Anni fa, sulla lavagna del vecchio Pci e dei suoi eredi, mi collocavano sempre tra i buoni. Ero un giornalista laico, democratico e antifascista. Per di più si sapeva che votavo a sinistra. Venivo sempre invitato alle Feste nazionali dell'Unità. Dovevo respingere di continuo le proposte di partecipare a dibattiti in questa o quella città. Il quotidiano del partito m'intervistava di frequente. Quando la dirigeva Walter Veltroni, fra il 1993 e il 1994, "l'Unità" ripubblicò nelle sue edizioni economiche ben quattro dei miei libri dedicati alla crisi della politica italiana (...). Li ripubblicò a costo zero, perché lasciai all'"Unità" i cospicui diritti che mi spettavano, tanti milioni di vecchie lire. Quel giornale era pieno di debiti. E dava ai redattori stipendi all'osso. Oggi qualche amico mi chiede se non sono pentito di averlo fatto. Rispondo sempre che non bisogna mai pentirsi delle opere di carità. Il Partitone Rosso mi aveva persino chiesto di candidarmi come indipendente nelle liste del Pci e avevo risposto di no. Me lo domandarono una seconda volta per le elezioni dell'aprile 1992, all'epoca di Mani Pulite. Il segretario era Achille Occhetto. E a trasmettermi la proposta fu Fabio Mussi. Risposi ancora di no. Volevo continuare a fare il giornalista e non mettermi seduto in Parlamento. (...). Allorché si resero conto che non mi pentivo di essere un revisionista, la musica cambiò. La sinistra ringhiosa decise di cancellarmi dall'elenco dei vicini di casa da salutare. (...) Niente più inviti alle Feste dell'Unità. Niente più interviste sul giornale diessino. Niente più convegni. E naturalmente nessuna proposta di discutere dei miei libri sulla guerra civile. Al loro posto iniziò una doppia campagna di discredito. La prima esplicita, condotta sulla stampa, e non solo su quella dei partiti di sinistra. La seconda nascosta, silenziosa, diffusa, gonfia di livore. E assai più efficace. Lo scopo era di convincere il maggior numero possibile di persone che Pansa era diventato un nemico della Resistenza e ormai doveva essere considerato uno sporco fascista. Era un ordine che veniva dal vertice del Partitone? Non lo credo. Veniva da tanti piccoli agitatori e propagandisti rossi, quelli che un tempo si usava definire agitprop. (...). Cari ottusi di sinistra, voi maledite il revisionista Pansa. Ma lui non vi maledice: vi compiange e prova una gran pena per voi. Volete un esempio? Il professor Lucio Villari, ordinario di Storia contemporanea a Roma, nonché illustre collaboratore di "Repubblica". Alla fine dell'ottobre 2008, era stato invitato da Bruno Vespa a una puntata di Porta a porta sul film tratto dal Sangue dei vinti. (...). Durante uno scambio di opinioni, Villari se ne uscì con un'accusa nei miei confronti che non avevo mai ascoltato da nessuno. Con la supponenza del barone universitario, sentenziò che neppure io credevo a quello che avevo scritto nei miei libri sulla guerra civile. Voleva dire, il barone Villari, che mi ero buttato sul revisionismo per convenienza, per vendere copie, per fare soldi. E dunque che ero in malafede. (...). Uno che mentiva sapendo di mentire. Mi sembrò l'ultima trincea degli avversari del revisionismo (...). Replicai al barone Villari come si meritava. Con il gusto di farlo davanti a un milione e mezzo di telespettatori. In seguito, ho ricevuto molte lettere indignate contro di lui. Scritte da chi lo aveva visto a Porta a porta. Vorrei fargliele leggere. L'illustre barone non ne sarebbe felice.

Dai blog