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Carriglio, "provocatore" tra il teatro e la visione

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Pietro Carriglio, vulcanico viaggiatore di lungo corso del Teatro italiano, in trent'anni passati tra Roma, la Sicilia e i maggiori palchi italiani, sembra sempre in scena. Ma non a causa di quelle malattie di esibizionismo che spesso rendono grotteschi o patetici tanti mattatori o, peggio, tante mezze tacche. Semmai Carriglio - che porta ora a Roma all'Eliseo un suo Amleto di grandi consensi in tutta la tournée - è affetto da una speciale timidezza. Che lo rende quasi infantile spettatore prima che espertissimo regista. Sta nelle sue stanze o sulle assi del proscenio, da dove i collaboratori lo sentono pure sbraitare o, al contrario, cercare le parole più delicate per rivolgersi a qualcuno, come uno che sia capitato al centro di un palco dove va in scena qualcosa di immenso e qualcosa che passa. La vita come uno spettacolo che, facendo venire magone e sorriso, lascia intravedere un'altra scena. Il suo autore, ne sono certo, è il laicissimo e vertiginosamente religioso Paolo di Tarso. In questo non più giovanissimo signore, amico e collaboratore di tutti i maggiori uomini di teatro e poeti italiani degli ultimi decenni, e a cui son stati dedicati volumi di studio da critici di primo ordine e dai migliori scrittori, sorprendono a volte le occhiate bambinesche. La ingenuità che si conquista con gli anni. E il nitore dello sguardo del soldato semplice nelle trincee. Perché la scena dove si trova questo geniale creatore di scene, amante della pittura contemporanea e degli scrittori antichi, devoto ai segni dell'arte remota e conversatore con gli scrittori recenti, è preda di tempeste e di crolli, abitata da presenze angeliche e da gentilezze infinite. Carriglio ha navigato come tanti teatranti in acque mosse e difficili. In anni in cui il teatro ha spesso fatto pasto di se stesso, divorando i propri tesori per smanie di protagonismo, per malanni ideologici e per diffuse irresponsabilità. Anni in cui il teatro ha provato a reinventarsi in molte direzioni, alcune delle quali mortali, come quelle che seguono le sirene della "fama" acquisita altrove e buttata in scena (fino alle odierne imbarazzanti prove teatrali di giornalisti, soubrettes, mezzi scienziati...). Altre strade, più occulte ai dispensatori di fondi pubblici o ai detentori di rubriche giornalistiche, hanno invece continuato a rendere il teatro luogo vitale per i singoli, se non per una società che non a caso sembra aver perso linfe e riferimenti. E mentre il teatro italiano, tra polemiche sui tagli e ansie di vario genere, sembra in affanno, ecco arriva a Roma Carriglio con il suo Amleto. Al di là della volontà del regista, sembra quasi una provocazione. Come di uno che appende in casa un quadro bellissimo là dove altri san vedere solo macerie, o si aggirano lamentandosi. Carriglio sa bene la necessità finora evasa di mettere mano a una riforma che rompa con coraggio certi metodi propri solo del nostro teatro, tra privilegi e sprechi. Ma non per questo si ferma. Non solo grandi rivisitazioni dei classici antichi e moderni, ma s'è spinto là dove pochissimi osano, a commissionare testi ai poeti contemporanei (Luzi, Raboni, il sottoscritto) e a lavorare su autori o testi "off" o marginali rispetto ai sentieri più battuti. Ora arriva a Roma con il suo Amleto, l'opera che è "il" teatro. Sarà una boccata d'ossigeno. E un gesto di teatro come grande mestiere, cioè come visione.

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