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La forza della dottrina sionista nella vita e nel pensiero di Herzl

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Ma che cosa davvero abbia significato in diritto internazionale la dottrina e la politica del sionismo, rispetto a quel che prima di esso era stato l'antisemitismo europeo, è vicenda assai meno semplicistica. La ripropone quest'anno la ristampa di «Vita di Theodor Herzl» di Baruch Hagani, apparsa per la prima volta nel 1919, fatta tradurre e dotata di una bella introduzione, per le edizioni della Voce, da Francesco Ruffini ed ora ripubblicata da Ernesto Irmici nella suggestiva collana degli "introvabili" dall'editore romano Talete. Ruffini era già in Italia accreditato fra i maggiori studiosi della vita religiosa di Manzoni e dell'opera politica di Cavour. La sua ricostruzione di un ideale nazionale poi riaffermato in diritto internazionale dalla Dichiarazione Balfour e già dopo la prima guerra mondiale meritevole di diventare Stato sarebbe stata da tanti in quegli anni rubricata come "imperialismo", "colonialismo", "occidentalismo". Non solo non era così. Ma insinuare che fosse così favoriva vecchi e nuovi antisemitismi. Proprio perché liberale italiano, partecipe di una tradizione di national state building, Ruffini si sentiva fiancheggiatore del sionismo politico herzliano. Dopo una guerra combattuta e vinta dal principio di nazionalità, lo Stato ebraico aveva diritto a diventare tale. Territorio e lingua potevano essere fattori aggiuntivi, ma non determinavano essi, come già da mezzo secolo Giuseppe Mazzini e Pasquale Stanislao Mancini avevano teorizzato, ciò che fosse da considerarsi nazione. La grandezza di Herzl, quale emerge dalle pagine di Hagani, fu di aver dotato il popolo ebraico fin dal 1897 dell'organizzazione dei congressi sionisti: assemblea parlamentare di un vero Stato nazionale, al momento sprovvisto di territorio. All'indomani del processo Dreyfus, nella coscienza dei democratici europei, Der JudenStaat in qualche modo era come se già esistesse. Per altri, invece, fu solo nel 1947 per decisione dell'ONU che un diritto alla nazione venne formalizzato. Di qui, per esempio in D'Alema, un riflesso da funzionario dell'ONU (pure da ministro) su ogni aspetto che riguardi la vita e i diritti di Israele: anche quando, tramite Waldheim, cioè dalla metà degli anni '70, la cultura dell'ONU dall'antisionismo sarebbe passata esplicitamente all'antisemitismo. Quel che alle spalle di D'Alema mai si avverte e che, invece, talvolta Fassino interpreta è quanto Marx in tema di questione ebraica fosse stato "pessimo maestro" e quanto a Torino, anche come filosofo del diritto, Bobbio valga meno di Ruffini. Non sono temi di quello che Stefan Zweig avrebbe chiamato "il mondo di ieri", ma lo sono del "mondo di oggi". Non c'è democratico che non possa dirsi almeno "un po' sionista". Proprio ripensando alla figura di Herzl, il termine "sionista" non può essere un insulto. Perché evoca un grande momento di storia della libertà.

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