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Il sogno di monsieur Lapierre «Un Mandela a Gerusalemme»

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Donate di slancio. Non vi vizia il cinismo, come capita a noi francesi». Domique Lapierre allarga le braccia e il sorriso. Mischia parole italiane e spagnole. Lo sfondo è il salotto fin de siécle di un hotel nella Roma del Tridente, tra il Tevere e piazza del Popolo. Mezzogiorno con un raggio di sole, aperitivo prima di assaggiare gli adorati ossobuchi alla romana in via Margutta. Lo scrittore-reporter, il benefattore dell'India più malata e cenciosa grazie ai diritti d'autore dei suoi best sellers, srotola la vitalità di settantasettenne super-ottimista (e un po' istrione). 24 ore a Roma per la nuova «mission impossible», accumulare nuovi fondi per l'associazione che ha voluto a Calcutta e che rende la vita meno difficile ai bambini. Calcutta, ovvero, per sfida e paradosso, «La città della gioia», il libro che ha creato il mito-Lapierre. Sono venuti poi «Parigi brucia?», «Gerusalemme! Gerusalemme!», «Mezzanotte e cinque a Bhopal». Ogni libro una denuncia. Come nell'ultimo, «Un arcobaleno nella notte» (Il Saggiatore) che sposta l'obiettivo in Sud Africa. E che smonta pezzo a pezzo il terrore dell'apartheid. «Mi dissero che c'era a Città del Capo una Madre Teresa. Una bianca, moglie di un avvocato. Non ha esitato a mettere a rischio la vita per i neri. Sono andato laggiù per incontrarla. Si chiama Helen Lieberman. Ha cominciato quando un ragazzino nero operato nell'ospedale dove lavorava fu ricacciato nel ghetto di Langa. Se lo andò a prendere, gli salvò la vita e da allora non ha smesso più». Insomma, uno degli eroi che le piacciono tanto. «Da lei sono riandato indietro nella storia, per capire come poterono quattro milioni di bianchi sottomettere una popolazione sei volte più grande di neri. E a provocare una delle tragedie razziste del Novecento». Ecco allora i coloni olandesi sbarcati a metà Seicento nella punta più a sud del Continente Nero. «Dovevano solo coltivare insalata per rifornirne i marinai in transito della Compagnia delle Indie e debellare lo scorbuto. Vi rimasero, con l'ossessione di sopraffare gli indigeni. Lo fecero a colpi di violenza. Il terrore dell'apartheid durò dal 1948 al 1994. Poi il riscatto di e con Nelson Mandela. E la transizione che egli seppe gestire senza vendette, violenza, tribunali. Solo la richiesta a chi si era macchiato di delitti di raccontare la propria colpa e chiedere perdono». Lei la chiama «verità in cambio di riconciliazione». Insomma, memoria condivisa. Quella che manca in tanti Paesi d'Europa. «Ma anche in Medio Oriente. Ecco, se un giorno nascesse un Mandela in Palestina, finirebbe la carneficina tra arabi ed ebrei. Israele è il paese dei miracoli. Potrebbe accadere». Ma in Sud Africa c'è ancora razzismo? «No, c'è povertà, che porta violenza tra etnie locali. I profughi dallo Zimbabwe varcano la frontiera e tolgono lavoro agli Zulu. E sono tensioni, scontri, omicidi». Anche Christian Barnard per lei è esemplare? «Ha trapiantato il cuore di un nero nel petto di un bianco. Quando gli afrikaaner rifiutavano perfino le donazioni di sangue africano. Non è stata una rivoluzione?» Ogni copia del suo nuovo libro va in beneficenza. Quante ne ha vendute? «Mezzo milione in Francia. Boom anche in Spagna. Ora c'è la traduzione italiana. Chi acquista un volume dà da mangiare a dieci bambini lebbrosi per una settimana. Ho guarito ed educato 10 mila ragazzini. Molti sono ora ingegneri, medici, diplomatici. Qualche giorno fa nel nostro rifugio "Resurrection" è arrivato Ashu, venti anni. Sventolava un foglio di carta. "Dominique guarda, guarda. È il diploma di ingegnere meccanico". L'associazione lo finanzierà per fargli avviare un'attività. Lo facciamo anche con le donne. Con un piccolo prestito comprano cinque galline, vendono le uova, poi il pollaio si ingrandisce...». Microcrediti per dare dignità alle persone, come predica Yunus, il banchiere dei poveri. «Proprio così. Quello che non si dona, si perde. Quando vedrò il Creatore gli racconterò la storia di Ashu».

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