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Il nuovo Vasco conquista la Capitale

Vasco Rossi

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Non è più tempo di spericolatezze, informa il signor Rossi: tuttavia, se il mondo che vorremmo ci presenta scenari ostili o deludenti, l'unica è gridargli addosso, e vedere l'effetto che fa. Gli danno retta in settantamila, al Nostro, nella prima notte dell'Olimpico, debutto ufficiale del tour estivo degli stadi. E stavolta l'occasione non è solo la messa profana di liturgia vaschista (qualche classico resta fuori dalla scaletta, con disappunto sparso dei fans), ma anche il vernissage dal vivo del nuovo materiale, quello di un album in cui il rocker emiliano, come mai prima, alza una bandiera che parrebbe bianca di resa emotiva, e invece chiama alla controffensiva. Si va tutti lì, nella ridotta dei resistenti alla banalità del conformismo traversale. Suggerisce Vasco: non tentiamo più di sorvolare le montagne, niente eroismi a vuoto, portiamo a casa la pelle, ma senza tradire la parola d'ordine della lealtà verso noi stessi. E lo dice a quella che vent'anni fa era forse una minoranza insofferente e vagamente bohemienne, e oggi è la Maggioranza Rumorosa che - superando ogni gap generazionale - intona i suoi inni nella vertigine del concerto. Siamo tutti Vasco, in qualche modo: tutti iscritti all'ufficio del precariato dell'anima, al tempo stesso emarginati e compressi nel frullatore di un modello di società imposto dall'alto, e che non piace a nessuno. Lo si capisce subito, quando si spengono le luci, e in quel palco smisurato, panciuto come un'evocazione amniotica, e fra mille specchi che riflettono i bagliori delle illusioni e delle speranze, lui allude addirittura a Spinoza, secondo il quale «chi detiene il potere ha bisogno che le persone siano affette da tristezza», «e invece noi siamo qui per portarvi un po' di gioia!». Poi è subito rock massiccio, adrenalinico e umorale, smagato e macho: dallo start di "Qui si fa la storia", "Cosa importa a me", "Dimmelo te", primo trittico della più recente produzione, si passa alla sontuosa "La noia", vecchio (è dell'82) ma non sbiadito ritratto della malinconia di provincia, di quella Zocca che sembrava non offrire altro che qualche sperone di roccia e un po' di muschio, e invece era il trampolino del mondo. Come annunciato alla vigilia, lo chassis del concerto è durissimo acciaio, temperato nelle chitarre virtuose di Stef Burns e Maurizio Solieri, e nella sezione ritmica schiacciasassi di Matt Laug e Claudio Golinelli. Ma qui e là, nella vertigine dell'hard rock, cala qualche bruma di ripensamento, come nel mezzo tempo bluesy de "L'uomo che hai di fronte" o nell'andante deciso di "'T'immagini", ripescata dopo un secolo nel baule ma per nulla impolverata. Un affondo secco contro lo strapotere della tv in "Non appari mai" ("qui siamo tutti belli e buoni, votiamo Berlusconi"), e due medley, nel corpo dell'esibizione: uno più sommesso e acustico (dentro ci trovi cose come "Toffee", "Dormi dormi", Brava Giulia", "Va bene così"), e uno più tirato e solido (con, fra l'altro, "Ormai è tardi", "Sensazioni forti", "Colpa d'Alfredo"), e la consueta mostra dell'argenteria di famiglia: "Siamo soli", "Rewind", "Stupendo", "Siamo solo noi", "C'è chi dice no" (sugli schermi compaiono segnali di divieto per il fumo, per la musica, per tutto quel che concerne il diritto di intossicarsi o esaltarsi con le proprie mani), "Vivere", "Canzone" (dedicata all'amico scomparso Massimo Riva). E naturalmente "Vita spericolata" o "Albachiara". Tra queste, trova un posto d'elezione l'elegiaca ballata "Il mondo che vorrei", lascito del tardo Vasco, quello che va letto in controluce. Quando canta "e alla fine non si piange neanche più", e in qualche modo ammicca a non lasciarsi fregare. A non morire dentro. Mai.

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