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Giorgio Torchia, l'inviato testimone del nostro tempo

Giorgio Torchia

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Fin da giovane fu innamorato della professione firmando in prima pagina per quarant'anni e passa. Avevo da poco smesso i pantaloni corti quando lo conobbi a Napoli. Magrissimo, con i suoi spessi occhiali, un ciuffo nero, il suo naso importante. Aveva letto Salgari, ma anche Conrad e altri autori che saziavano la sete di viaggi, di lingue e di paesaggi esotici. Andò ad abitare in una camera ammobiliata ai Quartieri Spagnoli. Lì mi mostrò il suo tesoro: una grande valigia piena di cartelle con ritagli di giornali e di riviste italiane, francesi, inglesi, americane. Meno che ventenne, custodiva carte e sogni per una professione che avrebbe cominciato chissà dove, chissà quando, ammesso che la Fortuna si fosse messa un giorno dalla sua parte, quella d'un giovane senza neanche il più piccolo aggancio nel potere che aveva militato nella destra calabrese. Nel '56 entrò a La Sera seminando stupore per le sue conoscenze. Poi se ne andò a Roma, al Secolo d'Italia dov'era redattore-capo Barbiellini Amidei. Traslocò a Palazzo Sciarra, a Il Giornale d'Italia. All'inizio degli anni Sessanta cominciò la sua avventura a Il Tempo e qui giunsero da ogni dove per tanti anni centinaia di pezzi indimenticabili. Libro su libro, carta su carta, ritaglio su ritaglio, aveva messo insieme una biblioteca e un archivio che avrebbe dato dei punti anche al Ministero degli Esteri. Giorgio se n'è andato lasciando orfana una famiglia che nella lunga malattia l'ha circondato del grande affetto che meritava. Un testimone della storia, un uomo che lascia nel rimpianto molti, moltissimi amici.

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