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Oggi celebrazioni a Gaeta Il fascino discreto del Regno delle Due Sicilie

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E la dicono chiara i tanti e più studiosi, storici e semplici appassionati che, oggi e domani, si riuniscono sotto il bel cielo di Gaeta per ricordare quella monarchia tiepida e benevola che proprio a Gaeta salutò, per sempre, l'Italia e i suoi sudditi. Il 14 febbraio del 1861 fu un ben triste giorno di San Valentino per il re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia di Baviera. I due lasciarono la roccaforte di Gaeta, subissata senza complimenti di granate piemontesi, permettendo l'annessione del Regno delle due Sicilie a quello di Sardegna. Con la presa di Roma, il 20 settembre 1870, la frittata sarà fatta: è l'Italia unita con Roma Capitale. E ancora ce la teniamo. Oggi e domani a Gaeta in programma un corteo in costume, un concerto, una funzione religiosa e un convegno: «Garibaldi bilancio di un bicentenario», che avrà inevitabilmente un sapore critico non solo nei confronti dell'eroe che conquistò a fucilate il Sud d'Italia, ma anche di coloro che ne hanno celebrato ed esaltato l'impresa. Sì perché l'impressione di chi oggi si mette a studiare la Storia con quell'impegno che va oltre la retorica è che «don Peppino», come lo chiamavano nel Meridione, ha fatto gli interessi di molti, ma non di tutti. E quei molti sicuramente non erano i bravi braccianti della Sicilia e del Napoletano che Garibaldi proclamava di voler liberare. E appare anche che Francesco II, che lasciò Napoli nel 1860 senza nemmeno provare ad abbozzare una controffensiva e che passò per un sovrano debole, fu certamente incerto, ma si rifiutò anche di scatenare una guerra civile. Di sicuro non fu avido, perché lasciò tutto quel che possedeva nella sua amata città. In definitiva alla portata dei piemontesi, che non manifestarono il medesimo distacco nei confronti dei beni materiali. Partendo da Napoli Francesco II disse: «Si è accusata la mia condotta di debolezza. Se l'amore più tenero per i miei sudditi, se la confidenza naturale dei giovani nell'onestà degli altri, se l'orrore istintivo del sangue meritano tale nome: sì, certo, io sono stato debole».

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