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di CARLO LOTTIERI Per definizione, la storiografia è un ...

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Ma se da tempo vi sono studiosi che vanno indagando con spregiudicatezza i temi più cruciali della vicenda partenopea, è pur vero che permane una specie di interdizione in ragione della quale non è quasi possibile aprire un dibattito pubblico senza censure. In particolare, continua a restare un tabù il giudizio da darsi sull'unità risorgimentale. Nonostante la brillante pubblicistica di autori anche piuttosto popolari come Carlo Alianello o Salvatore Scarpino (per limitarsi a soli due nomi), la "litania" a cui tutti sono tenuti ad aderire quasi ci impone di accettare la tesi secondo cui la fine del dominio borbonico sarebbe stata una benedizione che avrebbe posto le premesse per la modernizzazione del Mezzogiorno. In qualche modo, le armate garibaldine sarebbero riuscite a vendicare la Rivoluzione Napoletana del 1799 sconfitta dai sanfedisti; e poco importa se quando l'Eroe dei due Mondi entrò nella città partenopea l'ordine fu garantito dalla camorra, abilmente utilizzata da Liborio Romano, già ministro di polizia con Ferdinando II e poi schierato con i nuovi signori. Questi dettagli vengono in genere omessi, eppure è proprio in quella circostanza che la mafia napoletana compie per la prima volta un vero "salto di qualità". Nella vulgata ancora oggi dominante sui libri di testo, invece, grazie al Risorgimento il Meridione si sarebbe semplicemente affrancato da preti e baroni, iniziando un percorso magari accidentato, ma comunque orientato verso il progresso. Eppure di voci dissonanti ce ne sono, anche perché riesce quasi impossibile negare che la costruzione dell'unità italiana sia stata una "conquista" di Casa Savoia. Nobile aspirazione agli occhi di tanti sognatori, l'unificazione ha saputo essere anche uno straordinario affare per altri: specie se si considera che uno dei primi atti dell'Italia piemontesizzata fu l'esproprio dei beni ecclesiastici, presto ripartiti tra quanti erano più addentro nelle nuove istituzioni unitarie. Il nazionalismo che dominava l'Italia non fu però un qualcosa di isolato. Grosso modo nei medesimi stessi anni l'imperialismo prussiano poneva fine al pluralismo istituzionale tedesco, mentre in Nord America l'esercito di Lincoln riusciva a saldare la nazione solo grazie a un conflitto sanguinosissimo, che causò più di 600 mila uomini. E come dimenticare - in Italia - il legame tra il Risorgimento, l'interventismo della Grande Guerra e, infine, lo stesso fascismo? I primi ad esprimersi con toni assai critici nei riguardi dell'Italia sabauda, ovviamente, saranno gli studiosi vicini alla Chiesa: a partire dai gesuiti di "Civiltà cattolica". Ma la loro posizione non sarà isolata, se si considera che un illuminista lombardo quale il federalista Carlo Cattaneo - benché più volte eletto deputato - rifiutò di lasciare la Svizzera per non compromettersi con il dispotismo monarchico. A pagare il prezzo più alto, però, è stato il Sud, che con l'unificazione è divenuto una sorta di periferia incompresa e disprezzata. Non solo subirà la violenza delle armate di Nino Bixio (in particolar modo nel Catanese), ma nel corso della "lotta al brigantaggio" conoscerà una repressione che lascerà sul terreno molte migliaia di vittime. Pur all'interno di una discutibile rappresentazione di taglio marxista (con i contadini nelle vesti di un immaginario proletariato), Antonio Gramsci stesso prenderà le difese delle plebi legittimiste in rivolta, scrivendo nel 1920 che la monarchia piemontese era stata "una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti". La Napoli odierna è figlia anche, e forse soprattutto, di quelle umiliazioni. Ma un altro colpo assai grave arriverà con il protezionismo, adottato con il pretesto di "aiutare" la nascente industria settentrionale e destinato di fatto a penalizzare pesantemente il Sud. La massiccia emigrazione verso le Americhe sarà in larga misura l'effetto di questa politica sciagurata. Spogliata del suo antico ruolo di capitale (non va dimenticato che nel Settecento la città aveva saputo esprimere il genio di Giambattista Vico, Domenico Scarlatti e Ferdinando Galiani), Napoli inizia quindi un processo involutivo che culminerà nell'assistenzialismo di secondo Novecento, quando l'ottusità del potere centrale e il populismo del ceto politico locale porterà larga parte della città a vivere di prebende e malaffare. Per uscire da tale condizione Napoli e il Mezzogiorno dovrebbero iniziare a guardare con occhi nuovi ciò che sono e, in particolare, ciò che furono in un passato non lontano. Qui non si tratta tanto di costruire un'immagine idealizzata dei Borbone, ma semmai di comprendere quanto sia stato disastrosa l'ideologia nazionalista italiana e come ancora oggi produca danni quell'uniformità di leggi e regole che è del tutto incapace di dare risposte adeguate a problemi e culture tanto specifici.

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