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Trent'anni fa la chiusura del leggendario programma di spot, simbolo della «buona» tv

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I tempi felici di Carosello

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Stiamo parlando di Carosello, uno dei programmi più amati e più rimpianti della televisione in bianco e nero. Della tivù che ti educava. Che ti insegnava le buone maniere. Che ti prendeva per mano alla fine di una lunga giornata lavorativa. Una tivù capace di accompagnarti nelle ore di relax, ma anche di portarti sulla Luna in compagnia dell'Apollo 11 e di Tito Stagno. Allora non esistevano quelle cattive compagnie che negli anni hanno finito per imbastardirla: il telecomando e gli ascolti. Una tivù che soprattutto con Carosello educava i bambini, e dopo il sipario, li mandava a nanna felici e contenti. Con nella mente l'ultima impresa del pirata Salomone che col suo porta pazienza evitava che la sua ciurma potesse torturare il malcapitato di turno. Oppure dopo aver assistito al duello del mezzogiorno di cuoco che vedeva Gringo sfoderare le pistole. Per non parlare delle avventure dell'ippopotamo Pippo, del perché manca Lancilotto, di Susanna tutta panna o di Carmencita e Caballero nella Pampa sconfinata, di Jo Condor e del «Gigante, pensaci tu», di Cimabue che fa una cosa e ne sbaglia due, di cala cala Trinchetto o del pulcino Calimero, maltrattato da tutti al punto da commuoverci con quel «Uh, che maniere! Fanno sempre così perché loro sono grandi e io sono piccolo e nero. È un'ingiustizia però...». E noi tutti in coro a consolarlo con il ritornello «No Calimero, tu non sei nero, sei solo sporco». Pochi attimi di attesa e si realizzava il miracolo: una bella immersione nella tinozza e Calimero tornava splendido splendente, più pulito che mai e soprattutto sorridente. Che gioia e che emozione. Ce l'aveva fatta ancora una volta: era riuscito a cancellare tutti i suoi peccati e tutti gli errori commessi. Scusate se è poco. A quel punto si andava a nanna. Ma ci si andava felici. E senza capricci. Ben fieri che fino alle nove e un quarto della sera eravamo stati ben svegli a fianco di papà e mamma. Ora sì che ci sentivamo più grandi. Per noi Carosello era sinonimo di conquiste. Di tabù che venivano sconfitti. Abbattuti. Come grandi del resto si sentivano tutti quegli attori che indossavano i panni di personaggi coloriti, grotteschi, surreali. Ma indimenticabili per generazioni e generazioni. Dal tenente Sheridan di Ubaldo Lay, all'infallibile ispettore interpretato da Cesare Polacco che nella sua vita aveva commesso il solo errore di non usare mai un tipo di brillantina. Poi c'era l'uomo in ammollo (il musicista Franco Cerri), il grande Tino Scotti che prendeva un confetto lassativo per il quale bastava la parola. Virna Lisi, lei sì «che con quella bocca poteva dire ciò che vuole». La biondissima svedese Solvi Stubing che faceva sognare gli italiani con quel «Sarò la tua birra». E del grandissimo Gino Bramieri che ci raccontava le barzellette. Tutti avevano voglia di partecipare a Carosello. Grandi registi, attori, sceneggiatori. E non solo per i soldi della pubblicità. Ma per conquistare la notorietà. Per anni e anni Ubaldo Lay rimaneva il tenente Sheridan. Qualunque spettacolo o film lo vedesse all'opera, per tutti noi restava sempre Sheridan. E che dire dell'eclettico Ernesto Calindri? Imperturbabile. Incorreggibile. Sempre lì seduto su un tavolino in mezzo alla strada tra le auto che gli sfrecciano intorno senza investirlo. Lui sì che ci manca tanto. In questi anni in cui non riusciamo più a difenderci dal logorio della vita moderna. Carosello, ci manchi davvero tanto. Da quel giorno che la Carrà alzava il calice di un noto brandy ed Ermanno Olmi filmava la regia di uno spot su un noto tè. Quella sera ben 19 milioni di italiani erano lì davanti al video ad asciugarsi le lacrime. E tra i nove milioni di bambini c'eravamo anche noi.

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