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La scelta del critico

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Nicholson, il monumento del cinema statunitenseRapido, incisivo, imprevedibile: una trama che mozza il fiato e ha un coprotagonista d'eccezione

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UNA vera fortuna per il cinema (e per tutti noi) che Martin Scorsese sia tornato ai tempi di «Quei bravi ragazzi» ed anche (un po') a quelli di «Gangs of New York». Con tanto mestiere in più e con una capacità di muoversi dietro alla macchina da presa che si è sempre apprezzata fin dai tempi di «Mean Street», adesso però con una padronanza, una forza, una vitalità come in pochi a Hollywood mostrano di avere. Lo spunto, oggi, l'ha trovato in un film di Hong Kong, «Infernal Affairs», diretto da due registi di indubbia tempra, Andrew Lau e Alan Mak, ma, pur seguendone le tracce, è riuscito a trasformarlo in un grande, fortissimo spettacolo, di quelli che qualche volta riescono a imporsi (e a vincere) tra le fila migliori del cinema americano. Ovviamente non siamo più a Hong Kong, ma negli Stati Uniti, a Boston, e i personaggi, poliziotti e malavitosi, una volta tanto anziché italiani sono irlandesi. L'avvio, comunque, è quasi simile perché da una parte c'è un giovane poliziotto, Colin, che è arrivato in polizia grazie all'appoggio di un boss della mala e ha ricevuto l'incarico di far la spia, dall'interno, in favore dei suoi mandanti. Dall'altra, c'è un altro giovane poliziotto, Billy, che, dai servizi del suo dipartimento, è stato fatto infiltrare fra i gangster per scoprire le loro mosse, specie quelle relative a un piano indirizzato a una segretissima vendita alla Cina di aggeggi pericolosi in caso di guerre. Il seguito farà nascere i sospetti su entrambi e da entrambi le parti e si arriverà a una conclusione tragica in cui pagheranno tutti, anche i meno colpevoli. Scorsese ha retto le fila di questo intrigo sanguinoso in modo tale che quasi non concede il minimo respiro. Con le reciproche angosce dei due infiltrati, la descrizione affannatissima degli ambienti in cui l'uno e l'altro si muovono, portando la violenza al diapason ma non disdegnando, nei dialoghi, pur votati a un iperrealistico turpiloquio, delle puntate verso l'umorismo che comunque, anche quando fanno sorridere, non attenuano l'ansia, le tensioni e l'arsura del contesto. Con immagini durissime (una Boston che sembra l'anticamera dell'inferno) e un continuo, rapidissimo alternarsi degli episodi riferibili all'uno e all'altro degli infiltrati che riesce sempre, senza sforzo, a prendere alla gola. Come tutto il film, del resto, e, in un certo senso, come quei due attori protagonisti mai fino ad oggi così incisivi. Billy, l'infiltrato tra i gangster, è un Leonardo DiCaprio, aggressivo, esasperato, furioso, come ancora non si era visto. Di fronte a lui, e contro di lui, Matt Damon, l'infiltrato tra i poliziotti, si impone con una costante, perversa ambiguità. Carica di ombre nere. Il boss è Jack Nicholson, un monumento al male.

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