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Abbado e la «Bolivar», seconda giovinezza

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Il maestro trionfa anche a Roma con la giovane orchestra venezuelana

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Ovvero secondo appuntamento con quella autentica, miracolosa forza della natura che è l'orchestra sinfonica giovanile venezuelana «Simon Bolivar». Ma anche l'occasione per rivedere sul podio quell'artista profondo e raffinato che risponde al nome di Claudio Abbado, promotore e garante della corposa compagine sinfonica sudamericana. Ma all'auditorium romano il maestro milanese si è concesso a sorpresa (come per altro a Palermo) solo metà del programma, cedendo poi la bacchetta, non solo simbolicamente, al giovane Dudamel per la seconda parte consacrata a Mahler e coinvolgente l'organico al gran completo (circa duecento elementi). Dunque innanzitutto Beethoven col Triplo Concerto affidato all'estro solistico del pianista tedesco Alexander Lonquich, del giovane violinista russo Ilya Gringolts ma soprattutto del violoncellista Mario Brunello sotto l'attenta concertazione di Abbado. Un Beethoven perlaceo, meno eseguito e maturo di quello degli altri suoi più celebri Concerti, atipico ma a suo modo sperimentale, spiazzante per il non equilibrato rapporto tra i tre solisti (pare la partitura nascesse da un ampliamento di una iniziale bozza per violoncello e orchestra). Il fantastico trio (il suadente violoncello, il tagliente violino, il vigile pianoforte) dialoga a dovere con la compagine orchestrale con la supervisione di un Abbado, fisicamente forse un po' affaticato, che dirige tuttavia con l'entusiasmo di un ragazzo. E l'orchestra dei giovani lo segue puntuale, nitida, coordinata nella resa fonica, raggiungendo toni elegiaci nel celestiale Largo centrale. Insomma un Beethoven amabile ed insolito, dialettico ma senza l'esplosione delle contraddizioni esasperate del suo stile più noto. Gradito fuoriprogramma per il valente terzetto di solisti con l'adagio del Trio in si bemolle di Schubert. Eppoi tutti insieme appassionatamente ci tuffiamo nel mare magnum mahleriano della corposa Quinta Sinfonia sotto la bacchetta di Dudamel che dirige da grande e navigato direttore nonostante i suoi venticinque anni. La mastodontica orchestra davvero qui a ranghi completi si inerpica sulle difficoltà timbriche mahleriane con sicurezza e apprezzabile esperienza in uno spettro dinamico esasperatamente allargato, dai clamori assordanti dei movimenti veloci al delicato cammeo dell'Adagietto, vera gemma all'interno della partitura, quintessenza del decadentismo mahleriano ma anche alta opera di pura poesia sinfonica. Una lettura esaltante (sembra che questo pezzo sia il cavallo di battaglia sia dell'orchestra che del giovane direttore venezuelano) che esplicita tutte le molteplici e contraddittorie sfumature della scrittura mahleriana. Trionfali le accoglienze finali con ripetuti ritorni alla ribalta e non poteva mancare un ennesimo bis, identificato nello scoppiettante ( giovanile?) movimento finale della Sinfonia del Guglielmo Tell di Rossini..

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