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La grande stella del cinema muto morì sola e povera

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Per motivi anagrafici. Del suo esponente di maggior spicco in Italia, Francesca Bertini, ho potuto però seguire da vicino un tramonto ancora pieno di luce. Con un'amicizia che il passare del tempo andava sempre più rinsaldando, lei grata per il rispetto e l'affetto di cui la circondavo («l'ultimo dei miei ammiratori», diceva quando, sia pure a stento, ammetteva la sua solitudine), io conscio di vedere in lei un passato cui non avevo ovviamente partecipato ma che leggevo nella sua sola presenza come in un libro di storia, e forse anche meglio. «Cosa dici, arriverò ai cento anni?». Era la domanda che, compiuti ormai da tempo i novanta, mi rivolgeva più spesso. Nel suo solito angolo a sinistra nella hall del Grand Hotel, sul tavolino una tazza di tè e un biscotto (offerti dall'albergo perché lei non poteva permetterseli), sempre vestita come per andare a una festa, un abito di pizzo anche in inverno, una pelliccia di visone anche in estate. «Cento anni? Ma non li hai già compiuti?». La battuta metà scherzosa intendeva riferirsi a una biografia su di lei che l'aveva particolarmente indignata perché, fra gli altri errori (o da lei definiti tali), c'era anche la data di nascita che, come minimo, la invecchiava di dieci anni. Balzava su nella pelliccia, come frustata. E rispondeva con un «Fetente!» che, nonostante l'accento caldo di quella Napoli in cui non era nata ma dove aveva vissuto da giovinetta, sembrava a sua volta un colpo di frusta. Togliendo subito da una borsetta argentata (sempre quella) il passaporto in cui si garantiva che Elena Vitiellon sposata Cartier, in arte Francesca Bertini, era nata a Firenze il 5 maggio 1892. «Un passaporto svizzero — aggiungeva — di quelli che non scherzano su queste cose». La seguivo su quella strada e le garantivo i cento anni. «Sono ancora bella, non trovi? E me lo dicono tutti. Sapessi le lettere che ricevo...». La guardavo con affetto ma con un occhio critico che la infastidiva. «Lo so — replicava passandosi una mano sulla fronte — dovrei andare dal parrucchiere: i capelli, vedi, qui alle radici dovrebbero essere più curati, ma non ho mai tempo; delle volte mi manca persino la possibilità di truccarmi». Di lei, la prima diva — l'unica «Divina», diceva conscia che il termine era stato coniato proprio per lei sulla falsariga delle «divae» imperiali di Roma — io ho visto solo quella realtà sia pur fittizia del Grand Hotel. Presente, concreta e totalmente avulsa da quei film da cineteca di cui qualche volta, per stare al suo gioco, le parlavo. Ma che avevo conosciuto soprattutto attraverso gli entusiasmi di mia madre, soggiogata a suo tempo da quel fascino anni Dieci, anni Venti. «Vedi la Bertini, oggi? Diglielo che l'ho ammirata moltissimo, tutti i tuoi zii erano innamorati di lei». Si telefonavano, senza essersi mai viste, mia madre quella voce incrinata, stranamente tanto più invecchiata della sua, mentre invece erano quasi coetanee, non riusciva a collegarla al volto radioso che l'aveva incantata da ragazza né ai personaggi che l'avevano commossa. Per me, invece, era tutto il contrario, quella voce arrugginita era lei, quella figura smagrita nella hall di un albergo all'ora del tè era l'unica realtà di Francesca Bertini cui io potessi aderire. la «Divina», per me, non c'era mai stata, non l'avevo incontrata né da spettatore né da critico, c'era solo la donna anziana cui regolarmente ogni 5 gennaio («sono nata la notte dell'Epifania») lasciavo nella portineria del Grand Hotel, il suo recapito «ufficiale», un mazzo di fiori «pochi — si raccomandava continuando la recita — ho sempre la casa piena». La sua casa, il suo telefono. Segreti, nascostissimi. Il tè del Grand Hotel era, per lei, il suo stare in palcoscenico, la recita, permanente, di quel suo ruolo di «Divina» da cui si sentiva sempre investita, rifiutando l'ex. Alle spalle, invece, c'era una realtà molto diversa. In una sera di pioggia, dopo una festa in cui, per caso, c'eravamo incontrati, avevo trovato giusto accompagnarla per non

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