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Viale del Tramonto? «Avrei preferito girare Ombre Rosse» Il giudizio su Woody Allen: sa mentire con grande dolcezza

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Era l'estate dell'86. E quando sentii l'obbligo di congratularmi per l'ambito riconoscimento - dissi proprio così - mi zittì con un'occhiata sarcastica, dietro le lenti spesse come fondi di bottiglia: «Lasciamo perdere» bofonchiò «è la corona di fiori per il morto che cammina». In effetti, non si sentiva morto per niente. Andava nel suo ufficetto da commercialista alle nove di ogni mattina e lavorava fino a sera su progetti di nuovi film, tagliava o correggeva copioni. Con un tono leggermente cospiratorio mi confidò: «I produttori pensano che io sia rincoglionito, ma non sanno che raddrizzo le gambe ai giovani registi presuntuosi; i quali, non avendo fatto la gavetta, ignorano la grammatica e la sintassi della regia». Detestava essere lodato, aveva modi bruschi, ma ogni sua battuta era increspata di umorismo ebraico. Nato a Vienna, nel 1906, aveva fatto l'aiuto regista di Siodmak in Germania, ma appena soffiò il vento macabro dell'anti-semitismo, emigrò prima a Parigi e poi a Hollywood. Non dovette fare troppa fatica per diventare sceneggiatore di primo piano: tracce consistenti dei suoi dialoghi si intuiscono in "Ninotchka", la satira del comunismo russo diretta da Lubisch con la divina Greta Garbo. Ricordo che non mi offrì nulla, né un aperitivo né un caffé, ma solo dell'acqua minerale. E parlammo molto di cinema. Gli confessai che avevo visto a vent'anni il suo "Sunset Boulevard" (Viale del Tramonto) in un cinema romano e ne ero rimasto folgorato. Lui stette a sentire, poi ribatté: «Io invece avrei voluto girare "Ombre rosse", il capolavoro di John Ford». E aggiunse, in tono amaro: «Vogliamo sempre essere quello che non siamo». E Woody Allen? Dissi che per alcuni critici l'autore di "Zelig" pare nato da una costola di Wilder. A questo punto il geniaccio scontroso accennò un sospetto di sorriso e ammise: «Sì, l'ho sentito dire anch'io. E più di una volta Woody m'ha confessato che conosce a memoria tutti i miei film. Woody è un caro ragazzo, sa mentire con tanta dolcezza». «Mi racconti della Monroe» lo pregai: «È al centro di quel film ormai classico, "A qualcuno piace caldo". Come la ricorda?» Wilder disse: «Marilyn aveva una luce sotto pelle, un magnetismo erotico. Ma non se ne rendeva conto. Non ricordo attrice più fragile e insicura di lei: la mattina, prima di girare, dovevo consolarla per un quarto d'ora, era una specie di psicanalisi in pillole». Poi il discorso scivolò sul cinema italiano. Billy aveva amato i film di Germi ("Signori e Signore") e ammirava moltissimo Alberto Sordi. A mia volta mi lasciai scappare una piccola malignità, dissi: «Lei è d'accordo con quelli che vedono in Michelangelo Antonioni ("Avventura", "Deserto rosso") uno dei più grandi registi del cinema muto?». Wilder mi uncinò con uno sguardo sospettoso: «Perché del cinema muto?» «Perché senza i dialoghi, quasi tutti da buttare - dissi - i suoi film migliorano enormemente». Il Maestro posò il tagliacarte d'argento, con il quale aveva lungamente giocherellato, infine ammise: «Sì, lo so, molti registi italiani non danno troppa importanza ai dialoghi, che sono invece il traliccio su cui si reggono i fili della storia. I dialoghi sono come il lievito per la torta, come le uova per la majonese». Prima che ci congedassimo, volle parlarmi dei suoi amici italiani. «Che ne è di Vincenzoni?» domandò: «Lo chiamavo Big Luciano, aveva molto talento per la sceneggiatura, ma correva troppo dietro alle donne, e addirittura le rubava ai registi. Cosa molto grave, se uno vuol fare carriera». Gli domandai se gli mancasse l'Europa. Rispose: «Sì, ma solo ogni tanto, in sogno. Ma quella era un'altra vita».

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