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La libertà è nuda, non ha nemmeno le mutande

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Giornalisti a confronto sull'opportunità di porre limiti per non offendere religioni e culture

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Giganti di cartapesta sbeffeggiano il potere: il Re è nudo! Oppure: denudiamo il Re! Dappertutto, maschere che smascherano, con una grande scorta di munizioni-provocazioni: nessun politico sfugge alla deformazione caricaturale e grottesca. Questo il marchio di fabbrica: qui si fa satira. Roba che fa male, proprio come la verità. La satira è un pugno allo stomaco, semina ferite e piaghe, sconvolge sentimenti, partorisce risentimenti, arma i cuori. E i cuori armano le mani. Vignette su Maometto e conseguenti furori islamici insegnano. E allora? Bisogna mettere le mutande alla libertà? Dirle che non può andare a giro da sola, ma sempre in compagnia di sua sorella maggiore,l'adulta e seriosa responsabilità? A proposito chi è che decide come, dove, perché, quando, in nome di chi la sbarazzina libertà deve accettare i predicozzi della austera responsabilità? Tutte domande che, insieme a tante altre, anche più impertinenti, son venute fuori al convegno di quest'anno: «Satira e libertà: satira è libertà». Un incontro che nel titolo sembra voler subito annunciare una scelta di campo: qui si sta dalla parte di tutti i bimbi innocenti (o maliziosi Pierini?) che gridano: «Ma il Re è nudo!», beccandosi aspri rimbrotti e da Sua Maestà e dai compiacenti sudditi. In realtà, l'apparente scelta di campo si frantuma in un variegato dibattito, perché i relatori sono tanti e tra loro distanti. Se c'è, infatti, Giuseppe Sanzotta, vicedirettore de «Il Tempo», che, pur rifiutando interventi censori contro il diritto di satira, richiama il giornalista al dovere dell'equilibrio, tanto più in una situazione incandescente come l'attuale, e dunque gli ricorda la necessità di tener presente ogni criterio di opportunità etica e politica; c'è Giordano Bruno Guerri («nomen omen») che innalza barricaderi vessilli in difesa di tutte le libertà conquistate dall'Occidente nel campo dell'espressione, anche eretica, addirittura blasfema. Il nodo non è di quelli che si sciolgono con facilità: rinunciando oggi a una vignetta e magari denunciandone gli effetti devastanti, domani potresti rinunciare a un altro tassello dei tuoi diritti? Non è che l'Occidente, a furia di esser tollerante, stia per svendere la propria identità - in cui son compresi anche il «dico quel che mi pare» e «disegno quel che mi pare», nel rispetto delle «mie» leggi - a chi tollerante non è? Abbia o non abbia il valore e l'impatto di un editoriale, io a una vignetta feroce non rinuncio, dice Giuliano Rossetti («Repubblica»); io il «no» me lo dico da me, fa Krancic («Il Giornale»), perché non cerco la provocazione fine a se stessa. Appassionatamente si contende, ma alla fine amorevolmente ci si intende? No, grazie al Cielo, materia e umori ribollono, gli argomenti di discussione si ampliano: attenzione questo non è l'Islam ma «un» Islam (Andrea Marcigliano, «Secolo d'Italia»); la satira è nell'identità dell'Occidente dai tempi in cui Giulio Cesare trionfatore era sottoposto ai lazzi e ai frizzi dei suoi soldati( Alessandro Giuli, «Il Foglio»); non cerchiamo lo scontro di civiltà, ma dimostriamolo che la nostra è una civiltà (Riccardo Paradisi, «l'Indipendente»); nella nostra storia, il diritto si chiama libertà: dovremmo vergognarcene? (Fabio Canessa, «Il Domenicale»); chi tocca la satira dal piombo satirico sarà seppellito (Alessio Di Mauro, direttore di «Veleno»).

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