Il trionfo dell'anormalità
L'autobiografia di Alison Lapper un inno al coraggio e all'amore per la vita
Cercava il suo specchio, sognando la vita, la vita «degli altri», la vita «normale». E davanti alla statua simbolo della bellezza, davanti a quella Venere di Milo che tutti guardano ammirati, dimenticando quel marmo spezzato alle spalle, Alison, nata senza braccia e con gambe appena accennate, trovò il suo specchio e capì: «Sono come lei, meglio di lei, perché sono viva, di carne e di sangue». Da quel momento cambiò, la vita di Alison Lapper, bimba cresciuta negli orfanotrofi per disabili, ripudiata dalla madre che non volle «quel mostro», disperata quanto può esserlo una creatura sola. Cambiò la sua vita e quel suo corpo menomato divenne bandiera di guerra e di riscatto, esibito in mille foto, gridato in faccia al mondo. Ed ora, ora che una statua di quattro metri che la ritrae nuda ed incinta di otto mesi (ha avuto un bimbo, sì, da un uomo che l'ha abbandonata appena avuta la notizia) in Trafalgar Square la addita agli occhi di tutti, Alison ha scritto un libro, «La vita in pugno» nel quale si racconta e racconta come lo specchio delle sue brame le abbia detto che sì, è lei, la più bella del reame. E quell'opera di Marc Quinn, sul Fourth Plint a pochi metri dalla colonna dell'ammiraglio Horatio Nelson, che la stessa Lapper ha definito «un tributo alla femminilità, all'handicap e alla maternità», ha scatenato inevitabili polemiche e opposti punti di vista: c'è chi vede la statua come una celebrazione della vita, chi solo una sensazionalistica spettacolarizzazione dell'handicap. Alison Lapper, che dopo aver studiato belle arti oggi si guadagna da vivere dipingendo con la bocca e i piedi, con la sua «vita in pugno» vuol essere invece lo specchio del pensiero comune e dei preconcetti verso le disabilità. Come si fa, se non si hanno mani, a tenere la propria vita in pugno? Alison racconta la sua storia con leggerezza e ironia, senza mai piangersi addosso, ma senza voler a tutti i costi negare la sua menomazione. La sua è prima di tutto la storia di una bambina abbandonata alla nascita dalla madre, cresciuta in un orfanotrofio per disabili, che non si è mai arresa al suo handicap. Ma è anche la storia di Alison adolescente, alle prese con i primi amori e le prime delusioni; è la storia di un'artista matura che nei suoi lavori mostra il suo corpo con dignità e sfrontatezza, sottolineandone il lato sexy, per respingere ogni pregiudizio; è la storia di una madre orgogliosa di un figlio sano e «normale». È, in definitiva, la storia di una donna che, pur rifiutando l'etichetta di donna-coraggio, dimostra un'incredibile voglia di vivere. «Ho sempre creduto che la mia vita può essere piena quanto quella di chiunque altro, a prescindere da quello che ne pensa la gente. Anzi - spiega la Lapper - è quando qualcuno mi dice che non posso fare una certa cosa che divento più determinata che mai a dimostrare che si sbaglia. L'unica differenza è che ho sempre saputo che per ottenere ciò che voglio devo lavorare più duramente delle persone dotate di un corpo abile. Uno dei principali ostacoli al mio miglioramento sono i loro pregiudizi e la loro limitata comprensione delle mie potenzialità». Ma ora chi glielo dirà ad Alison, a lei che del suo corpo ha fatto una clava contro la vita bastarda, che una ragazzetta di poco più di vent'anni s'è appesa nella doccia perché si sentiva, con un corpo da pin up, troppo grassa e brutta? Forse provava la stessa sensazione che ha provato l'altro giorno la modella cacciata dalla passerella perché l'ago della sua bilancia era fermo su 52 chili? Chi glielo dirà alle ragazze che passano il tempo fra uno yogurt magro e una bottiglia di vitasnella, che vivere è una favola e che nelle favole tutto è possibile? Alison vive, orgogliosa di sè. La ragazza di Imperia è morta, vergognosa di sè. Ballava, la gente ammirava i suoi movimenti leggeri, i ragazzi le lanciavano occhiate irriverenti, ma lei si sentiva brutta. Brutta e grassa. E così s'è ammazzata, in un giorno come gli altri, dava