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Folon, una luce mai vista

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E a chi gli domandava in che modo sognava di morire», lui rispondeva: «Prendendo il volo. In queste poetiche preferenze c'è tutta la soave ed aerea leggerezza della creatività di Folon, che forse ora - dopo aver abbandonato la sua condizione terrena - si libra in quei cieli tante volte reinventati nei suoi immaginifici acquerelli e nei suoi manifesti amati dal pubblico di tutto il mondo. Prima di «prendere il volo», Folon ha fatto in tempo a veder realizzata una sua grande aspirazione: un'importante mostra nella sua amata Firenze, ricca di duecentocinquanta opere. La rassegna si è chiusa, con un enorme successo di pubblico, appena un mese fa ed è stata la sua mostra più rilevante dopo quella tenuta nel 1990 al Metropolitan Museum of Art di New York. Folon ha saputo diventare veramente popolare senza perdere niente della sua leggera profondità, capace di trasformare la quotidianità in sogno colorato. Per questo ha sempre amato creare manifesti, scenografie teatrali (bellissime quelle per la «Boheme» di Puccini messa in scena a Torre del Lago nel 2003) e soprattutto sculture che rifiutavano l'atmosfera chiusa dei musei per cercare invece una comunicazione sociale e naturale al tempo stesso, sottoposta allo sguardo della gente ma anche alla patina temporale portata dall'ambiente. Tra le sue opere più coinvolgenti, spicca «La mer, ce grand sculpteur» (1997), una statua in bronzo di uomo seduto, posta davanti al mare, a Knokke, in Belgio, e spesso sommersa dall'alta marea che ritirandosi la lascia affiorare dai flutti come se fosse appunto opera del mare stesso, un borghese di fine millennio che rappresenta l'alter ego contemporaneo della classica Venere generata da un conchiglia. Né vanno dimenticate la scultura «Le Messager», alla memoria dei bambini assassinati dai pedofili e posta nel Parc Royal di Bruxelles o la sua installazione «Le temps d'une prière», realizzata a Pietrasanta la notte del 31 dicembre 1999 per salutare i duemila anni passati con duemila mani di terracotta scolpite dall'artista su cui vennero accese altrettante candele. Folon ha saputo misurarsi con pari efficacia comunicativa sia con le piccole dimensioni del foglio di carta che con le grandi dimensioni delle sculture monumentali. E c'è riuscito perché le sue opere sono quasi sempre piene d'aria e di respiro, nate come sono da una necessità interiore, per dirla alla Kandinsky. Certo, alle spalle della sua ricerca si sente l'ombra talvolta ingombrante di un titano dell'arte del '900 come Paul Klee, colui che più di ogni altro ha saputo rendere visibile l'invisibile e anche l'influenza di uno straordinario comunicatore di enigmi quale è stato Renè Magritte, belga come lo stesso Folon. I cieli, le acque e le brumose terre rese colorate da Folon sono quelle che si affacciano sul Mare del Nord, dove Folon trascorse molte estati della sua infanzia e dell'adolescenza. Ma l'armoniosa misura, quasi matematica, che lievemente e limpidamente pervade le sue invenzioni pittoriche ha il suo DNA nella civiltà figurativa italiana, da lui immensamente amata e scoperta per la prima volta a vent'anni, durante uno dei suoi viaggi in autostop. Con questi mirabili «strumenti» nel suo bagaglio culturale, Folon ha sempre rifuggito qualsiasi naturalismo imitativo ed è riuscito a creare una luce mai vista prima. Aveva quindi ragione Federico Fellini, suo grande amico, quando notava che «la luce di Folon non sarà mai quella che il sole gli può dare. Ha inventato una luce strana, venuta da altrove. Le sue immagini rappresentano spesso le stesse colline, apparse nella nebbia all'orizzonte. Ciò gli ha permesso di dare un colore alla nebbia. Ha ricostruito delle città blu immaginarie. E niente è più vero di quelle città sulla carta. Sono le città che voleva e che le tristi città di oggi non gli avrebbero mai dato». Lo stesso F

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