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LA TESTIMONIANZA

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«Mio padre, un uomo mite giustiziato come un animale»

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Tutte cronache esemplari, nella loro spoglia drammaticità. Ecco alcuni brani dalla lettera di una signora di Varese: un pezzo di storia italiana, nuda e cruda. «Eravamo una famiglia felice. Papà faceva il segretario comunale in una piccola città lombarda. Aveva la tessera del Pnf e credeva in Mussolini e nel fascismo. Ci credeva da uomo mite: so che si dice sempre così del proprio padre, ma lui era davvero una persona pacifica, per niente arrogante, incapace di far male a una mosca. Nell'autunno del 1943 si iscrisse al Partito fascista repubblicano. La mamma non voleva. Continuava a ripetere che la guerra di Mussolini era perduta e per lui sarebbe stato più prudente restarsene in disparte. Ma papà seguitava ad avere fiducia nel Duce. Era rimasto inorridito dall'armistizio dell'8 settembre e da quella che poi verrà chiamata la fine della Patria. E riteneva una viltà nascondersi nel momento del bisogno(...). Anche lui fu costretto a indossare la divisa di una Brigata nera, quella della nostra provincia. Ma l'ha indossata soltanto qualche volta, quando veniva convocato al comando. Per il resto, non partecipò mai a nessuna operazione militare o di polizia. E seguitò a fare il suo lavoro di segretario comunale. Senza mai pensare di nascondersi o di fuggire neppure quando la guerra civile arrivò alla fine. Tuttavia, la mattina del 28 aprile 1945, una squadra di partigiani, che ci sembravano quelli dell'ultima ora, spesso i più spietati, venne a prenderlo in casa. Papà fu trascinato sulla piazza del paese in cui stavamo. Qui lo picchiarono in modo selvaggio. Riducendolo a un essere che non aveva più nulla di umano. Poi qualcuno gli sparò una raffica di mitra e lo uccise. Il suo corpo rimase sulla piazza per due giorni, con un cartello che diceva: "Così finiscono i torturatori delle Brigate nere". La mamma e io, che non avevo ancora compiuto i 10 anni, passammo giorni indescrivibili. Avevamo la certezza di fare la stessa fine di papà. Ogni sera qualcuno sparava colpi di rivoltella davanti alla nostra casa. E quando la mamma, aiutata da un parente, andò a riprendere il corpo di papà per seppellirlo, venne ingiuriata da persone che stazionavano sulla piazza. Qualcuno cercò anche di aggredirla e si salvò soltanto per l'intervento energico, quasi furibondo, del parroco del paese. Verso la metà del maggio 1945, la mamma e io andammo a vivere a casa del nonno paterno. Era un agricoltore abbastanza facoltoso, con un grande podere nella provincia vicina alla nostra. Lui non era mai stato fascista e credo che abbia dato dei soldi ai partigiani. Il nonno ci accolse, anche se odiava la mamma. L'accusava, a torto, di non aver impedito che suo figlio si iscrivesse al fascismo repubblicano. E appena arrivammo nella sua cascina, ci disse subito che non voleva più sentir raccontare di com'era morto papà. È inutile che le descriva l'assurdità della nostra situazione. Sta di fatto che abbiamo incominciato a subire l'obbligo del silenzio anche in casa! La mamma e io potevamo parlare di papà soltanto di sera, quando ci ritiravamo nella nostra camera. Per il resto della giornata, guai a fiatare: era come se non fosse accaduto nulla».

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