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«L'arma dell'amore contro l'incubo dei kamikaze»

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È «Inno alla gioia» dell'israeliana Shifra Horn (Fazi, 338 pagine, 16 euro). Ci troviamo a Gerusalemme, è il 20 gennaio del 2002: Yael, la protagonista, è alla guida della propria vettura e ascolta l'Inno alla goia di Beethoven. Si trova dietro a un autobus che in pochi istanti esplode davanti ai suoi occhi. La strage è compiuta. Tra le vittime un bambino con il quale lei aveva giocato prima dell'attentato, attraverso i finestrini dell'autobus. Il tempo del dolore immobilizza quello della cronologia. Yael si trova d'un colpo catapultata in una realtà dove l'orrore della violenza la porterà a modificare la propria esistenza nell'elaborazione dello shock subìto e nella ricerca di nuove identità. La sua relazione amorosa con il padre del bambino rimasto vittima dell'attentato, Avshalom, ebreo ortodosso, rappresenta il tentativo di raggiungere una libertà priva di maledizioni e ossessioni. Shifra Horn, è possibile che si possa arrivare a una convivenza pacifica tra Ebrei e Musulmani in Israele? «Sono sempre stata ottimista, ho vissuto molto tempo nella città vecchia di Gerusalemme dove c'erano molti arabi con i quali le relazioni di vicinanza erano molto buone. Mi ricordo quando la maggior parte di Israeliani, una volta firmato l'accordo di pace con Arafat, era ottimista, tutti credevamo che le cose si sarebbero risolte. Ma con l'arrivo di questo nuova intifada, abbiamo capito che era tutta un'illusione. Ci siamo sentiti ingannati. Ma dobbiamo essere comunque ottimisti, anche se molti si sono spostati da una politica di sinistra a una posizione più di centro». Un'opinione sulle molteplici critiche mosse contro la politica statunitense di aver lasciato che gli Ebrei rimanessero vittime di persecuzioni? «Sicuramente gli Stati Uniti avrebbero potuto salvare molte vite durante l'Olocausto. Ma è pure vero che risultasse naturale dopo la Grande Guerra dare un rifugio alla popolazione ebraica dove coltivare la propria terra e vivere in pace senza più alcuna minaccia da parte degli antisemiti. Ma comunque sembra che l'Olocausto continui a perseguitarci. La protagonista del mio romanzo, Yael, figlia di un sopravvissuto a un campo di concentramento, si sente anche lei sopravvissuta all'attentato, pur all'interno del suo stesso Stato. Un destino simile». Quanto c'è di Shifra Horn in Yael Maghid? «C'è molto. Hanno cresciuto un figlio da sole, sono entrambi divorziate, hanno cambiato le loro opinioni politiche da sinistra a centro-destra, sono vissute nello stesso quartiere». Ma l'aspetto singolare di questo bel libro è sicuramente il linguaggio che corrisponde perfettamente allo stato d'animo di Yael. Vi è una sorta di adesione delle parole alla sospensione del tempo causata dal dramma. Il lettore avverte sin dalle prime pagine l'emergere di una immobilità psicologica motivata dallo stato d'animo del dopo-attentato, nonché dell'evoluzione di una scrittura che narra in realtà la ricerca di una nuova condizione esistenziale e più strettamente umana. A cosa è costretta Yael dopo la tragedia dell'attentato? «Quando ti devi confrontare con un trauma così grande, la tua vita viene divisa: niente è più come prima, c'è solo un dopo in cui tutto è diverso. È come se qualcosa ti si rompe dentro e sei costretto a fare dei cambiamenti per adattarti alla nuova situazione. Solo con i cambiamenti ci si adatta a vivere». L'amore può vincere anche sulle tragedie? «È un conforto, è una fuga. Io sono romantica, quindi penso che l'amore possa guarire le ferite dell'anima». Appassionata di gatti, ha anche dedicato a loro un libro, Shifra Horn ama la cucina italiana, soprattutto la cioccolata e pone al primo posto, sopra ogni altro valore, la salute. Siamo in estate, consiglierebbe una vacanza in Israele? «Sì, chiunque può vivere una diversa esperienza di vita, un giovane si troverebbe sicuramente a suo agio, perché vi è un'atmosfera simile a quella italiana, molto amichevole. Poi si possono trovare ovunque riferimenti biblici ed elem

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