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Come nel '500, la mania dei libri sui libri

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Il loro vizietto sconfina spesso in parossistica mania, si contorce in inconfessabili delitti - portarsi via un volume da una biblioteca pubblica, il più comune - o in ingenui eppur voluttuosi tic, come quelli che affondano il naso nel tomo languendo per l'odore della colla e della carta. S'annoverano tra costoro, tra i bibliofili, non solo i letterati, i colti tout court. Famosissimo Giuseppe Pontiggia, che affittò un capannone per la propria biblioteca, finita in Svizzera dopo la morte dell'autore de «L'arte della fuga». Oppure i bibliofili a tema, quelli che collezionano solo o prevalentemente un tipo di volumi. Esempio, Oliviero Diliberto, che possiede tutti, ma proprio tutti i titoli della Bur. Ma c'è pure il fissato dell'oggetto-libro in sé, che non legge una riga, ma ne accumula come pezzi d'antiquariato. Per loro, però anche per i curiosi di editoria, la Sylvestre Bonnard, casa milanese che pubblica unicamente libri che parlano di libri, ha fatto uscire «Il Manuzio, dizionario del libro» (278 pagine, 32 euro). Ovvia la citazione nel titolo dell'umanista veneto che avviò nel Cinquecento un modello esemplare di editoria e pubblicò, per primo, cataloghi editoriali con prezzi. Questa piccola enciclopedia a cura di Antonio Strepparola comincia con la a di abaco e abbecedario e finisce con zoomorfa, iniziale a dire del capolettera a forma di animale. Ma dentro ci trovi, oltre ai termini tecnici, la storia. E sono le voci più articolate. Come editoria, che s'infila con magistrale sintesi nel cuore del problema. E si capisce della italica vicenda del libro, subalterna a quella del resto d'Europa, per il tardivo raggiungimento dell'Unità. Ma in cui le dotte città, Bologna e Firenze, irradiarono sigle di case editrici diventate pilastro di cultura: Zanichelli e Pàtron, Barbèra e Le Monnier, Vallecchi e Olschki. La voce biblioteca cavalca dalla raccolta di Alessandria agli scaffali degli umanisti, alle informatizzate di oggi. La voce carta emana fascino come se si srotolassero seriche stoffe. Ecco la avoriata dai riflessi dorati, ecco la cartapecora, o quella del Giappone, morbida e resistente, la marmorizzata, la marezzata, la goffrata con arabeschi in rilievo, la bambagina fatta di stracci. Ciascun carattere tipografico ha il suo underground, e gli artigiani del libro prendono vita, anche il peggiore, lo stamparo. Si spiega donde venga il refuso e che cosa sia la vedova, l'ultima riga di un paragrafo che termina, in inconsolabile solitudine, all'inizio di una pagina. Un libro così non poteva che concepirlo Vittorio Di Giuro, fondatore, nel 1995, della Sylvestre Bonnard (dal nome del bibliofilo protagonista di un romanzo di Anatole France), negli anni Settanta direttore della Sonzogno, gran fiuto per i best seller al punto da convincere Eco a pubblicare «Il nome della rosa». E sopratutto, bibliofilo. Così innamorato dei libri da vendere la propria collezione per avere il denaro necessario a mettere su la casa editrice che pubblica books about book.

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