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Delitto Gentile, il mandante fu il segretario del Pci fiorentino

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Anche questo è un contributo importante per fare piena luce su un crimine che suscitò profonda emozione per l'età della vittima (che aveva allora quasi settant'anni) e per il fatto che - pur avendo aderito alla Repubblica Sociale - non poteva essere considerato un pericoloso estremista. Nello scorso mese di novembre lo storico Francesco Perfetti aveva pubblicato (con lo stesso editore) "Assassinio di un filosofo", un saggio molto documentato nel quale indicava Palmiro Togliatti come mandante morale del crimine. Paoletti non è d'accordo, anche se indica una pista molto vicina alla precedente. "L'ordine di eliminare Gentile", scrive Paoletti, "non partì da una generica associazione politica clandestina, il Partito Comunista Italiano, ma da una precisa persona fisica. Perché ci sia un 'mandante morale' ci deve essere anche un mandante materiale. Noi l'abbiamo trovato nel responsabile politico del Pci fiorentino: il segretario Giuseppe Rossi". All'epoca Rossi era un "quadro" comunista in ascesa. Morì prematuramente quattro anni più tardi, e per questo non fece nel Pci la carriera che gli poteva essere pronosticata. Questo genere di puntualizzazione può essere utile per sostenere che Rossi fosse in grado di decidere da solo, senza cercare coperture nelle alte sfere del partito. Che - caso mai - vennero da Girolamo Li Causi, il dirigente che materialmente modificò il famoso articolo di Concetto Marchesi (del 24 febbraio 1944: quaranta giorni prima dell'omicidio), che fu allora interpretato come l'ordine di esecuzione della condanna a morte di Giovanni Gentile. Da un punto di vista storiografico, questa ricostruzione modifica ben poco quella di Perfetti. Li Causi era allora il responsabile della stampa e propaganda della direzione del partito in Alta Italia, ed è molto probabile (se non addirittura certo) che si assunse la responsabilità di manipolare un articolo di un intellettuale del calibro di Concetto Marchesi soltanto dopo essersi consultato con Togliatti. Qualche elemento nuovo Paoletti lo offre riguardo ai motivi personali che avevano indotto un moderato come Giovanni Gentile ad assumere una posizione più ortodossa, rispetto alla Repubblica Sociale e al nazismo, nelle settimane che precedettero l'attentato (costituendone, dunque, la legittimazione). Il filosofo era in ansia per le sorti del figlio Federico, capitano d'artiglieria di complemento, internato dai nazisti, di cui non aveva notizie da molti mesi. Il 14 marzo scrisse una lettera a Mussolini (pubblicata nel libro di Paoletti), supplicandolo di aiutarlo. E cinque giorni dopo pronunciò un discorso all'Accademia d'Italia, in cui tesseva gli elogi del Fuhrer, "condottiero della grande Germania". Quel discorso si rivelò efficace perché di lì a pochi giorni Federico Gentile fu messo in condizione di rientrare in Italia. ma non fece in tempo a riabbracciare il padre che - nel frattempo - era stato ucciso nell'agguato gappista davanti alla villa fiorentina nella quale era ospite. È verosimile che il vecchio filosofo avesse inneggiato a Hitler per le ragioni personali rivelate da Paoletti. Ma è difficile pensare che, in tal modo, avesse involontariamente firmato la propria sentenza di morte, che era stata scritta un mese prima del discorso all'Accademia d'Italia con l'inchiostro di Concetto Marchesi e le aggiunte di Li Causi.

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